La globalizzazione pone con forza una sfida, quella del vivere insieme. Le migrazioni hanno profondamente cambiato la fisionomia delle città piccole e grandi. In spazi stretti si concentrano diversità enormi, di cultura, di stile di vita, di religione. La differenza abita la porta accanto, il mercato di quartiere, una corsia d’ospedale, un istituto penitenziario, le aule scolastiche, i servizi sociali sul territorio. E “vivere insieme fra diversi non è solo un problema delle periferie del mondo, di democrazie iniziali, di Stati senza libertà oppure disegnati con confini arbitrari. È anche una questione europea (1), ha scritto Andrea Riccardi. In Italia e in Europa le Scuole della pace della Comunità di Sant’Egidio, spazi gratuiti di studio e educazione alla pace per bambini e adolescenti delle periferie delle città, nate alla fine degli anni Sessanta come sostegno pomeridiano alla scuola, propongono forme di alternativa alla violenza, oltre che all’individualismo e alla solitudine. Le Scuole della pace intendono educare i bambini a vivere la pace con tuti e a farsi “promotori” della pace. “Evitare i conflitti – scriveva Maria Montessori – è opera della politica: costruire la pace è opera dell’educazione (2). Non basta infatti evitare che le contrapposizioni esplodano o che, in certe situazioni, rimangano latenti, è necessario costruire la pace, superando le barriere, incomunicabilità, pregiudizi, razzismo… e soprattutto rinunciando ad usare la violenza.
Questo lavoro educativo si esplica nei contesti più diversi e nelle situazioni più emarginate, dove la pace, a volte, sembra un ideale impraticabile. La parola, per tutto questo, è decisiva. E’ uno strumento indispensabile di comunicazione ma anche l’elemento determinante dei rapporti umani.
“Essendo l’umano un essere del linguaggio – scrive Massimo Recalcati – essendo la sua casa la casa del linguaggio, il suo essere non può che manifestarsi attraverso la parola (3). Dare parole a chi non le ha, è un obiettivo prioritario delle Scuole della pace. Per don Milani, non avere parole è la più grande povertà: i poveri, incapaci di esprimersi e comunicare, sono privati degli strumenti per comprendere la realtà e difendere i loro diritti. Secondo il prete fiorentino la scelta di fare scuola è innanzitutto ridare la parola ai poveri.
Maria Montessori, nel corso delle sue conferenze sulla pace negli anni Trenta, affermava: “Parlare di un’educazione alla pace in un’epoca critica come la nostra, in cui la società è costantemente minacciata dalla guerra, potrebbe sembrare frutto di una idealità ingenua. Ma io non credo invece che la preparazione della pace attraverso l’educazione sia l’opera più efficacemente costruttiva contro la guerra (4). Sono parole valide ancora oggi. Lavorare per la pace è educare nuove generazioni a crescere senza accettare nella propria vita la “normalità” della violenza o, per dirla con Hannah Arendt, la banalità del male.
E’ noto come, nel corso del Novecento, i regimi totalitari abbiano utilizzato l’educazione e la propaganda per creare, fra le giovani generazioni, uomini e donne nuovi, capaci di lottare per affermare la propria ideologia. Accade ancora oggi: in tanti conflitti i bambini e gli adolescenti sono “educati o addestrati alla guerra”. Speso i piccoli e i giovani, in tante parti del mondo, restano coinvolti nei conflitti, anche come attori, reclutati dalle guerriglie, usati dalle formazioni terroristiche.
L’educazione alla pace, però, non è necessaria solo nei Paesi toccati dalla guerra, dove i giovani combattono, ma anche in quelle situazioni di conflitto latente o di violenza urbana così frequenti nelle nostre società.
C’è, inoltre, una violenza nascosta talvolta tra le mura domestiche, ma anche nei vicoli del quartiere o nelle strade delle bidonville. “Fare a botte” è qualcosa di usuale e perfino utile nelle più diverse situazioni: per imporsi, risolvere contenziosi, presentarsi a chi non si conosce ancora… o semplicemente per allontanare la noia. La prepotenza fisica spesso sostituisce le parole che non si trovano o non si sanno dire. Altre volte la violenza verbale l’accompagna. Sembra giusta e assolutamente necessaria per farsi ascoltare e rispettare.
Ma la legge del più forte quasi mai vede i bambini dalla parte dei vincitori. Alcuni si trovano tra gli aggressori; altri, molto più spesso, finiscono dalla parte delle vittime. C’è quasi sempre il timore di soccombere, da raccontare solo nei momenti di sincerità.
In tante periferie la violenza è un orizzonte quotidiano e il rimedio per le vittime sembra essere solo la forza fisica che si acquista crescendo. Si tratta invece di liberare i bambini da questo destino e indicare loro un modello di rapporto umano fatto di rispetto e cortesia. Scrive Edgar Morin: “I genitori e gli educatori hanno ragione a insegnare la cortesia. (…) Bisogna insegnarla come necessità umana di riconoscimento dell’altro” (5). E’ quell’atteggiamento che Francesco d’Assisi comunicava in mezzo ai conflitti della società medievale, fino ad affermare: “Dio è cortesia” (6).
Alla Scuola della pace si scopre la possibilità di “regolare” le questioni o i problemi con gli altri in modo diverso. Ciro, undici anni di Scampia, quartiere alla periferia di Napoli tristemente noto per il radicamento della criminalità organizzata, esprime un sano dubbio sull’uso della violenza: “Io non lo so ancora se voglio sparare. Prima pensavo che volevo sparare sempre, ogni volta che mi sfottevano. Oggi non lo so cosa voglio fare”.
Per la cultura violenta di molte periferie del mondo, non usare la forza sembra impossibile. Le provocazioni, le liti, gli scontri sono quotidiani: aggressività e sopruso sembrano normali. L’aspirazione a vivere in pace, se mai c’è stata, si dimentica come un bel sogno impraticabile. Ci si abitua ad essere maltrattati o insultati e così si maltratta e si insulta a propria volta, senza riuscire ad utilizzare un registro differente.
Alla Scuola della pace, invece, si sperimenta che non è necessario essere violenti. Gli amici più grandi sono presenti e, se ci sono “ingiustizie”, i “grandi” intervengono a “fare giustizia”, aiutando a comporre le liti e a superare i problemi. Ci sono regole chiare: non ci si insulta, non si ride delle difficoltà degli altri, ci si ascolta, si gioca con tutti. Non ci sono “nemici”, ma solo amici, diversi tra di loro. Si delegittima così, la “cultura del nemico” che porta ad individuare nell’altro la causa dei propri problemi. Si scopre che quello che tutti evitano è come me, parla come me, ha gli stessi miei problemi: si apprende ad immedesimarsi nell’altro.
Alla Scuola della pace, non vale la legge del più forte e non è necessario mostrare qualche forma di superiorità. Anzi, il più piccolo e debole è amato e considerato in modo speciale. Questa attitudine aiuta a guardare tutti in modo partecipe: pian piano si impara che “forte” è colui che sa astenersi dall’uso della violenza. Come quell’adulto che, alla Scuola della pace, sta vicino, parla, sostiene, sorride, scherza e, pur essendo adulto, non usa mai la violenza. La sua arma è la parola, che risolve ogni lite. Tra i bambini sono frequenti anche piccoli diverbi, dispetti, scontri, liti. Offese più o meno involontarie che devono essere superate per ritrovare serenità e amicizia. A volte i bambini credono di aver subìto un torto, oppure pensano di essere “innocenti” e ingiustamente accusati perché “ha cominciato lui!”. Nelle Scuole della pace si impara anche, se necessario, a riconoscere il proprio torto o errore e anche a chiedere scusa, per tornare amici.
Fare pace vuol dire riconoscere anche che l’altro ha un po’ di ragione, che un certo comportamento era meglio evitarlo. E’ sempre un’occasione per parlare di ciò che è accaduto, restituendo magari a quell’offesa, sembrata intollerabile, le sue modeste dimensioni. Oppure si comprende che quel gesto sgarbato era dovuto ad un momento di agitazione… Ci si immedesima nell’altro per capirne le ragioni e i sentimenti e si impara ad essere empatici. Dal litigio, insomma, può scaturire talvolta un momento di crescita. Dall’esperienza della pace ritrovata può nascere anche una riflessione più larga: “Io vorrei che si facesse una legge che vieta la guerra in tutto il mondo, così la smettono di litigare e di fare stare male la gente” – dice Sara, di dieci anni.
Si sperimenta che, senza litigare, si sta meglio insieme agli altri. E’ un segreto che fa giocare più felici e divertire di più: “per rendere il mondo più bello noi bambini dobbiamo non litigare, non farci la guerra ed essere tutti amici e volerci bene, i papà però devono bere di meno così non litigano e devono giocare di più con i bambini” – spiega Daniel di dieci anni. Cresce la consapevolezza che vivere l’amicizia con gli altri è uno dei tanti aspetti della pace. Ed è un grande regalo che i bambini ricevono, una chiave per la felicità, che rimane nel tempo e sprigiona energie di bene, anche a distanza di anni.
- Riccardi, Convivere, Roma-Bari, 2006, pp. 7-8.
- Montessori, Educazione e Pace, Milano 1970, p. 29.
- Recalcati, Il complesso di Telemaco, Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Milano 2013, p. 30
- Maria Montessori, Educazione e Pace, cit., p. 48.
- Morin, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, Milano 2015, p. 51.
- G. Jessuet, Dio è cortesia. Francesco d’Assisi, il suo ordine e l’Islam, Padova 1988.
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