La morte di Alika, ambulante nigeriano ucciso barbaramente il 29 luglio a Civitanova Marche, mentre cercava di guadagnare onestamente qualcosa per la sua famiglia, deve farci fermare e riflettere dopo quello che è successo nel cuore dell`Italia.
Non possiamo andare avanti come se nulla fosse e considerare quell’omicidio come semplice gesto di un folle, da archiviare presto per tornare alle nostre faccende quotidiane. Mentre Alika moriva soffocato, nessuno è intervenuto per salvarlo, menre qualcuno, invece, ha trovato il tempo di filmare la violenza. Dov’è finita l’umanità in quella strada di una tranquilla cittadina delle Marche? Qualcosa sta cambiando nella nostra società, qualoca che viene da “dentro” e non da “fuori”. E’ l’immagine di un’Italia che rischia di cambiare pelle senza accorgersene. Da dove nascono questa violenza e questo cinismo? Per troppo tempo abbiamo pensato che le parole non contassero tanto o, meglio, valessero solo se gridate per farsi notare oppure, il più delle volte, se rivolte contro qualcuno. Soprattutto contro chi appare “diverso”, in primo luogo i migranti, percepiti spesso come “nemici” solo per la loro presenza,al di là delle loro storie, spesso fatte di sofferenza e per le loro condizioni di vita. Le parole invece contano, e come.
Basta farse un giro nel web per imbattersi in predicazioni dell’odio, frutto di una cultura del disprezzo che non ha fondamenti reali ma che viene legittimata dalla stessa presena nella Rete. Lì che nascono troppe volte i “mostri” da espellere dal nostro orizzonte. Lì ci sono le radici di una vita da spettatori anonimi, spesso incapaci di distinguere il reale dal virtuale, come a Civitanova dove un uomo è morto davvero. L’omicidio di Alika nasce in questa miscela di predicazione dell’odio e scomparsa della solidarietà, di cui spesso i social sono conduttori.
Fermarsi quindi, dire che non si è d’accordo a considerare l’altro come un nemico, è il primo gesto per riscoprire la cultura umanistica da cui proveniamo, su cui siè fondata l’Italia e l’Europa e su cui sono state edificate le nostre istituzioni, in modo più deciso e articolato dopo la terribile esperienza della Seconda guerra mondiale e della Shoah. Una cultura che conosce la pietù e la compassione ha la capacità di coinvolgere tutti nella costruzione di una società più giusta. Per questo sceglie di non escludere, ma di integrare chi appare diverso valorizzando la sua sete di inclusione. Basta pensare alla scuola come grande palestra che forma felicemente insieme, senza distinzioni, bambini italiani e nuovi italiani. Come secondo gesto occorre andare oltre l’apparenza guardando in faccia alla realtà “vera” che ci parla di persone e famiglie originarie di paesi che poco ancora conosciamo, ma che fanno ormai parte del nostro panorama italiano: alcuni di loro sono già cittadini, mentre si è persa un’altra occasione per introdurre la cittadinanza, attraverso lo ius scholae, per minori nati in Italia da cittadini stranieri e che hanno completato un ciclo di studi.
Sabato a Civitanova un gruppo nutrito di associazioni ha partecipato a una manifestazione di solidarietà nei confronti della famiglia di Alika e contro ogni razzismo. E’ stato un modo per dare voce a questa cultura umanistica e positiva di cui riprendere coscienza e che va rinalnciata. Ma c’è molto ancora da fare. La società civile può dare l’esempio. Può e deve trainare istituzioni e forze politiche tentate oggi più che mai – in campagna elettorale – dall’immobilismo o, peggio, dalla strumentalizzazione. Evitiamo, nel frattempo, di far morire la pietà e la compassione verso i più deboli, manifestiamo la nostra solidarietà verso chi è oggetto di disprezzo, moltiplichiamo le parole e i gesti di attenzione nei confronti dei più deboli per togliere acqua alla cultura del nemico, che è cultura di morte.
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