RossoPorpora, 14 aprile 2015
di Giuseppe Rusconi
Ampia intervista al presidente della Comunità di Sant’Egidio sugli impulsi dati da papa Francesco all’attività diplomatica vaticana – Da Roma l’invito ai nunzi apostolici a essere presenti sul territorio – Cuba, Corea, Cina – Medio Oriente, Siria e Libano – Niente armi statunitensi all’Ucraina – Sant’Egidio è piccola: ridicolo pensare che faccia concorrenza alla Segreteria di Stato.
Nel centro di Trastevere, vicino alla storica e artistica basilica di Santa Maria, ha la sua sede la Comunità di Sant’Egidio. Fondata da Andrea Riccardi nel 1968 si è molto illustrata in questi anni per la sua attenzione costante al dialogo interreligioso, alla pace nel mondo laddove regna la guerra (si deve alla Comunità la pace in Mozambico), ai poveri e agli emarginati, all’educazione. Dal 2003 il suo presidente è l’oggi cinquantatreenne Marco Impagliazzo, professore – come Riccardi, che è sempre in piena attività – di storia contemporanea; riveste anche la carica di presidente del consiglio d’amministrazione dell’Università per stranieri di Perugia. A Impagliazzo – che nel febbraio scorso ha ricevuto anche la cancelleria tedesca Angela Merkel, desiderosa di fermarsi per un’oretta a sant’Egidio dopo l’udienza papale – abbiamo posto alcune domande sulle ‘novità’ immesse da papa Francesco in tempi, modi, contenuti dell’azione della diplomazia pontificia…
Il 13 marzo 2013 il cardinale Jorge Mario Bergoglio veniva scelto come Papa della Chiesa cattolica. Per il secondo anniversario dell’elezione si sono lette molte analisi su un pontificato fin qui indubbiamente singolare e molto sfaccettato, fondato tra l’altro sulla denuncia delle storture del sistema economico in cui viviamo, che privilegia la ‘cultura’ disumana dello scarto ai danni dei bambini (nati e non nati), dei giovani (disoccupati), degli anziani (peso inutile per il pubblico erario). Tale denuncia si riflette anche su quella che è la politica internazionale della Santa Sede. Lei, professor Impagliazzo, è il presidente della Comunità di Sant’Egidio, molto attiva da parte sua nel cercare soluzioni di pace a tanti conflitti nel mondo, un servizio che richiede anche discrezione e prudenza nei contatti necessari per raggiungere l’obiettivo. Le chiedo: con papa Francesco è cambiata la natura della diplomazia pontificia? Prima ancora: papa Francesco si caratterizza in verità in tale contesto per certi suoi gesti improvvisi e sorprendenti e per un linguaggio che (in questo e in altri ambiti delicati) appare improntato più a un sentire verace, a volte messianico che a un calcolo diplomatico…
Il Papa nella sua formazione non ha seguito studi diplomatici né sembrava essere fatto per la diplomazia, è vero. Tuttavia gode di un vantaggio inestimabile: è un uomo del terreno. Uno che conosce la realtà delle persone, che conosce le periferie e soprattutto ha una grande empatia con le sofferenze dei popoli. Ha sviluppato dunque – e continua a sviluppare – a partire dalla sua lettura delle periferie, una sensibilità particolare verso chi soffre: penso ad esempio ai suoi appelli contro la tratta delle persone, lo sfruttamento minorile, la schiavitù dei bambini-soldato, la piovra della droga, la piaga del narcotraffico. In un mondo come il nostro in cui le grandi sofferenze sono soprattutto nelle realtà periferiche l’esperienza personale del Papa è una enorme chance di cui può avvalersi la diplomazia vaticana, che ha una sua struttura, un suo metodo di lavoro, un suo stile.
C’è compatibilità tra l’approccio di papa Francesco e quello tradizionale della Segreteria di Stato?
Io penso di sì. Mi pare che si sia creata una bella sinergia tra i due approcci: quello nuovo e fresco di papa Francesco ha arricchito il preesistente, solido di suo. I due approcci risultano complementari. Se il Papa ha bisogno della struttura della diplomazia vaticana, quest’ultima non può ignorare la lettura del mondo di chi si fa portavoce delle sue sofferenze. Tale sinergia può portare a sviluppi molto positivi per la diplomazia vaticana: certamente papa Francesco chiede che i rappresentanti pontifici siano ancora più attivi e incisivi del consueto, li spinge a fare in fretta, e ciò può comportare anche successi diplomatici in tempi brevi…
… pur se fretta e diplomazia non sembrano di per sé molto compatibili…
Dalla mia esperienza sembra in realtà di sì. Conosco molti nunzi apostolici, perché la Comunità di Sant’Egidio lavora in tante parti del mondo e, quando è confrontata con situazioni internazionali delicate, entra certo in contatto con la diplomazia vaticana. Vedo che il Papa riceve regolarmente ogni nunzio …
Non succedeva prima?
Nell’ultimo periodo del pontificato di Benedetto XVI succedeva di meno, per motivi legati – penso – alle condizioni di salute del Papa, ai troppi impegni. La scelta di papa Francesco di riunire tutti i nunzi una volta all’anno e di riceverli poi anche separatamente quando ne facciano richiesta mi sembra pagante, perché il Papa sta dando un impulso importante all’intera diplomazia pontificia così che si interessi maggiormente di ciò che accade nella realtà sociale in cui vive…
Anche qui: prima non succedeva?
Meno. Oggi i nunzi non lavorano solo a livello politico, ma proprio anche immergendosi nelle situazioni problematiche della società. Ho parlato con nunzi che mi hanno confermato lo stimolo del Papa: “Andate molto in giro, toccate i problemi della gente”. Prima presumo che ci fossero nunzi che già lo facessero, ma soprattutto come scelta legata alla sensibilità personale; oggi è invece un’indicazione generale che viene da Roma, dal Papa e si estende a ogni situazione particolare…
Allora in questo caso il centralismo romano funziona…
(ride) Assolutamente sì.
Vediamo se c’è qualche esempio che dimostri come papa Francesco abbia apportato un’accelerazione dei tempi diplomatici richiesti normalmente…
E’ sotto gli occhi di tutti quel che è accaduto tra Cuba e Stati Uniti…
A tal proposito, a quella trattativa ha contribuito anche Sant’Egidio?
Sant’Egidio ha avuto un ruolo in questa situazione, nel senso che le nostre Comunità hanno sempre coltivato ottimi rapporti con il governo cubano. Ad esempio nel settembre scorso, in una piazza centrale de L’Avana, è stata fatta una preghiera interreligiosa per la pace nello spirito di Assisi: e ciò è avvenuto con la ‘benedizione’ del governo cubano, il che si poteva già intuire dalla grande copertura mediatica data all’incontro. Mi sono detto allora: “Qui tutto può cambiare…”
Il disgelo tra Cuba e Stati Uniti è stato dovuto effettivamente in misura importante allo stimolo di papa Francesco?
Francesco è stato ringraziato personalmente da Raul Castro e da Obama e ciò mi sembra che parli chiaramente sull’importanza dell’intervento papale. Del resto ormai pian piano la storia stava andando in quella direzione, con la rottura progressiva dell’isolamento cubano grazie ad esempio al ristabilimento di voli tra L’Avana e Miami. Però è indubbio che l’accelerazione ci sia stata. Volevo far notare, su un altro scacchiere, una novità in genere trascurata dai media ma per me assai significativa. Mi riferisco al viaggio papale in Corea e all’omelia pronunciata prima del ritorno a Roma nella cattedrale di Seul…
… durante la “santa Messa per la pace e la riconciliazione”…
Sì, era quello il contesto. Nell’omelia papa Francesco rilevò che “tutti i coreani sono fratelli e sorelle, membri di un’unica famiglia e di un unico popolo. Parlano la stessa lingua”. Per esperienza diretta so che tali contenuti sono stati molto apprezzati da alti funzionari del governo della Corea del Nord. E’ un fatto importante che ci deve far riflettere sul futuro, su eventuali relazioni diplomatiche tra Corea del Nord e Santa Sede. La grande difficoltà in quel Paese è data fin qui dall’impossibilità di avere conoscenza della situazione reale dei cattolici. La Comunità di Sant’Egidio a tale riguardo ha inviato varie volte una missione umanitaria nella capitale Pyongyang: essa ha avuto modo di incontrare esponenti della ‘Chiesa cattolica patriottica’, ma più di questo niente. Con lo stabilirsi di relazioni diplomatiche verremmo probabilmente a registrare anche la presenza di un certo numero di cristiani fin qui ufficialmente ‘invisibili’.
Chiesa patriottica e Chiesa clandestina, un tema che rimanda anche alla grande Cina. Dopo la “Lettera” del 2007 di Benedetto XVI ai cattolici cinesi, apparentemente sembra che- nonostante l’affiorare di una forte volontà di stabilire rapporti diplomatici – de facto non si sia mossa foglia…
Apparentemente. L’iniziativa di papa Benedetto XVI era stata per noi una bella sorpresa, molto apprezzata anche a Pechino. Devo dire che l’ultimo segnale esterno di movimento registrato è stato il permesso concesso a papa Francesco in viaggio verso e dalla Corea di sorvolare lo spazio aereo cinese; il Papa ha così potuto inviare il tradizionale messaggio di auguri e benedizioni divine, stavolta (era una prima volta) al presidente cinese Xi Jinping. Presumo che la situazione possa evolvere pian piano positivamente, anche perché oggi il Papa usufruisce della grande esperienza del Segretario di Stato cardinale Parolin, colui che qualche anno fa ha posto le basi concrete per una bozza di accordo tra la Santa Sede e la Repubblica popolare cinese.
Qui però mi viene in mente il cardinale Joseph Zen Ze-Kiung, vescovo emerito di Hong Kong, molto critico nei confronti dell’attuale politica vaticana verso la Cina. L’accusa di Zen è che per raggiungere l’accordo la Santa Sede potrebbe accettare di svendere il cattolicesimo cinese, quello eroico, fedele a Roma…
Il cardinale Zen esprime certo una sensibilità particolare di cui la Santa Sede per tradizione tiene conto in simili casi. Però penso che Zen abbia una grande storia, ma forse è parte integrante più del passato che del presente della Chiesa cattolica in Cina. Credo proprio che un accordo tra Cina e Santa Sede sia un passo necessario e utile ad ambedue, qualora ci siano alcune condizioni, per il futuro della Chiesa che entra in relazione ufficiale con il Paese più popoloso del mondo e certo anche per il futuro della Cina. Sarà un grande vantaggio per quest’ultima avere al proprio interno dei cattolici liberi di professare la loro fede e nel contempo disponibili, anzi desiderosi, di mettersi al servizio del bene comune.
LA PREGHIERA PUO’ SPOSTARE LE MONTAGNE
Passiamo a un altro scacchiere, quello spinosissimo riguardante la situazione in Medio Oriente: dei cristiani, di interi popoli. Lì papa Francesco, a settembre 2013, ha dato un segnale forte…
La grande preghiera per la pace, un’iniziativa senza precedenti, riferita in particolare alla minaccia di intervento armato esterno incombente sulla Siria: una preghiera cui la nostra Comunità ha aderito con grande entusiasmo. Nel gesto di papa Francesco c’è tutta la grande idea che la preghiera è alla radice della pace, può spostare realmente le montagne…
In quell’occasione che cosa ha spostato?
Ha bloccato lo sviluppo dell’idea di un intervento armato internazionale contro la Siria. Qualsiasi situazione di guerra non può portare che a nuove incertezze. Come Le diceva giustamente monsignor Marchetto in una recente intervista, non si sa mai a quali conseguenze possa portare una guerra: è un’analisi, quella di monsignor Marchetto, che io condivido totalmente. Del resto l’idea della forza della preghiera per la pace è stata alla base dell’incontro interreligioso di Assisi, voluto da Giovanni Paolo II nel 1986; ed è stata ripresa da Benedetto XVI.
A giugno 2014 ecco poi l’invocazione per la pace in Terra santa nei Giardini Vaticani: anche qui torno a chiederLe se è servita concretamente a qualcosa…
R: Secondo me ha dato un segno di speranza in una situazione bloccata. Papa Francesco ha detto: “Io ho aperto una porta. Poi vedremo cosa accadrà”. Siccome la storia non sempre è prevedibile e prepara a volte sorprese che non coincidono con i nostri tempi, quelli degli uomini, dobbiamo sempre aprire delle porte. Le nostre categorie dell’ “A che serve?” contano poco nella vita spirituale, non sono nei pensieri di Dio. Noi non sappiamo esattamente a che cosa ha portato l’invocazione alla pace in Vaticano: certo a un clima di maggiore fiducia e speranza…
Ma dove?
Dapprima nel mondo, nel senso che si potesse fare qualcosa di positivo per la pace in Terrasanta. Poi, penso, anche nei cuori dei palestinesi e degli israeliani. Certo la politica ha altre logiche. Però io so che l’ex-presidente Peres gira nel mondo a parlare di pace…
Però non appartiene anche lui al ‘passato’?
Appartiene al passato istituzionalmente, ma non appartiene invece al passato per i contenuti che propone con passione: la pace non passa.
ARMI ALL’UCRAINA? NO
Siamo confrontati, stavolta in Europa, con un’altra situazione spinosissima, quella relativa all’Ucraina.
La posizione del Papa in favore della pace non è stata in un primo tempo compresa da una parte dei nostri fratelli greco-cattolici , che non hanno apprezzato i riferimenti di Francesco durante l’udienza generale del 4 febbraio: lo scandalo della guerra tra cristiani, la violenza fratricida, il parlare di vittoria e di sconfitta… Secondo me tale parola del Papa peserà molto sulla risoluzione del conflitto, si rivelerà decisiva. Ma oggi le parti contrapposte non sono ancora in grado di coglierne la profezia.
Da alcune parti, soprattutto negli Stati Uniti, si insiste sull’urgenza di fornire “armi letali” all’esercito di Kiev…
Un’idea alla quale io sono totalmente contrario. La questione di fondo oggi è un’altra: dare più forza al linguaggio diplomatico, dare più forza agli accordi di Minsk, che la cancelliera tedesca Merkel – seduta proprio qui il 21 febbraio scorso – mi diceva “fragilissimi, bisognosi di essere puntellati continuamente”…
Anche in tal senso il cardinale Parolin è stato in Bielorussia dal 12 al 15 marzo…
Un’iniziativa che mi è sembrata assolutamente positiva e che mostra la vivacità e anche la tenacia della diplomazia vaticana, pungolata continuamente da papa Francesco.
Concludiamo con la situazione nel Mediterraneo, che appare sempre più fosca. Sembra che una tenaglia si stringa anche attorno all’Europa meridionale, in primo luogo all’Italia…
Il Mediterraneo è stato per secoli il mare dell’incontro. Da un secolo, dalla Prima Guerra mondiale, dal genocidio armeno non più. Da quando l’esasperazione dei nazionalismi ha distrutto il tessuto di coabitazione, il Mediterraneo è diventato un luogo problematico, soprattutto per la sua complessità. Una complessità che non è stata capita e che oggi ha bisogno di esserlo senza isterismi. E’ vero che c’è una minaccia e anche all’interno dell’Islam ci sono problemi gravi. Il mondo musulmano deve avere più coraggio nel ribellarsi all’interpretazione del Corano data dagli estremisti islamici violenti: è una lettura sbagliata…
LA LETTURA ESTREMISTA DEL CORANO GIA’ SCONFESSATA DALLE GRANDI SCUOLE TEOLOGICHE ISLAMICHE
Gli estremisti dicono: Ma nel Corano c’è scritto che…
Le loro sono letture ormai pienamente sconfessate dalle grandi scuole teologiche dell’Islam in primis quella dell’Università di al Azhar. Anche per questo ci vorrebbe una rivolta prima di tutto spirituale, religiosa, umana contro tali interpretazioni violente del Corano. D’altra parte dobbiamo provvederci di nuovi strumenti di lettura della situazione. Che significa dire: guerra al terrorismo, un’entità che è sfuggente, che si muove con un’abilità pari al cinismo in un territorio che non ha confini nazionali? Se non ben precisata, la “guerra al terrorismo” potrebbe essere interpretata come la “guerra all’Islam”, la cosa peggiore che potremmo fare.
Si può dire che il terrorismo islamico, come oggi si presenta, è anche un frutto avvelenato delle cosiddette ‘primavere arabe’?
Non credo. Ci sono state le ‘primavere arabe’ ed è vero che non hanno dato i frutti sperati, salvo che nella Tunisia, oggi sotto attacco. Ci sono culture in cui il discorso della democrazia fa fatica ad emergere e ciò porta a chiedersi anche come possano essere governati certi popoli.
Perché si è voluta destabilizzare la Siria, che da sempre ha visto una decorosa convivenza tra etnie e religioni?
Se lo sono chiesto in primo luogo i cristiani arabi, quelli siriani (e anche quelli libanesi), che da subito hanno assunto una posizione molto critica verso la rivolta contro Assad. E’ comprensibile che per noi, con le nostre categorie occidentali, il regime di Assad fosse considerato dittatoriale. Però, alla luce dei massacri, dei tanti morti provocati in conseguenza delle rivolte, ci chiediamo anche se i cristiani arabi non avessero ragione.
Un altro Paese vive in una situazione di precarietà: il Libano, raggiunto da oltre un milione di profughi siriani, senza contare le centinaia di migliaia di palestinesi degli esodi precedenti…
Il Libano e Israele sono le uniche due vere democrazie in tutto il Medio Oriente. Dobbiamo molto amare il Libano, lo dobbiamo molto proteggere innanzitutto con la preghiera. Ricordo le parole bellissime di Giovanni Paolo II in Libano e sul Libano, la splendida visita apostolica di Benedetto XVI: la Chiesa porta il Libano nel cuore. Dobbiamo difendere con forza il Libano come luogo di convivenza e di democrazia. Dobbiamo aiutare maggiormente i libanesi in questo momento di difficoltà e di sofferenza, di pressione originata dalla presenza di tanti profughi. Dobbiamo essere più generosi anche come Europa.
Ancora una domanda: a volte si dice e si scrive che la Comunità di sant’Egidio fa concorrenza con le sue iniziative internazionali alla diplomazia vaticana. Vero?
Noi siamo coscienti dei nostri limiti. Siamo una realtà ecclesiale, siamo piccoli, non ambiamo far concorrenza alla Segreteria di Stato: sarebbe anche ridicolo, vista la sproporzione di strutture, di forze, di tradizione storica. Chi parla nei termini citati di Sant’Egidio ha probabilmente un’idea troppo alta della Comunità. Quello che noi abbiamo invece capito è che ogni comunità cristiana può sprigionare una grande energia a favore della pace. Noi l’abbiamo sperimentato in Mozambico. Non lo volevamo né ci è stato chiesto dalla Santa Sede, ma dalle parti in causa locali. Del resto in genere la Santa Sede non chiede a Sant’Egidio di intervenire al suo fianco: la Santa Sede ha i suoi canali, i suoi percorsi. Noi naturalmente ci mettiamo al servizio di chi soffre per la guerra – madre di tutte le povertà, come rileva Andrea Riccardi – e informiamo la Santa Sede su quanto accade sul terreno. Noi cerchiamo di educare alla pace nelle scuole che sorgono in tutti i continenti, così da rimarginare le ferite della guerra o prevenirne un’altra: tutto questo fa parte del dono che ci è stato dato, il nostro carisma di comunità. ecclesiale.
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