La Giornata dell’Europa, che si svolge ogni anno il 9 maggio, celebra la pace e l’unità del continente. La data segna l’anniversario della storica dichiarazione dell’allora ministro degli Esteri francese, Robert Schuman.
Schuman espose l’idea di una nuova forma di collaborazione politica, che avrebbe reso impensabile la guerra tra le nazioni europee ed è considerata l’atto di nascita di quella che oggi è l’Unione europea.
A quell’epoca la costruzione comunitaria era nelle mani di un’élite illuminata, che – grazie ai suoi valori – optò per un’avventura paradossale e avveniristica. Se qualcuno all’epoca avesse fatto votare i popoli su una qualsiasi decisione comune, sarebbero stati certamente contrari. Troppo forti erano le ferite della guerra.
Oggi l’Europa non è più quella di un’élite, ma rappresenta democraticamente l’orientamento dei suoi cittadini con l’elezione diretta del Parlamento. Questa articolata costruzione comunitaria sta affrontando la crisi politico-militare più importante dalla sua fondazione, cioè l’aggressione della Russia all’Ucraina, e stenta a dare una risposta che dia una chance alla soluzione negoziale del conflitto.
Di fronte a questa guerra i cittadini europei, pur orientati in maggioranza verso la pace, sembrano irrilevanti e il solo atto politico che emerge dai media e rimbalza nell’opinione pubblica appare la scelta di molti tra i 27 governi dell’Unione di fornire armi all’Ucraina. Non ci sarebbe qualcosa di più da dire e da fare? È possibile oggi, di fronte a tale gravissima crisi, ritrovare una nuova ambizione europea?
Nonostante le debolezze intrinseche dell’Unione, occorre affermare che è necessario per l’Europa ritrovare e ripensare un suo ruolo nel mondo e la prima sua funzione deve essere quella della difesa della pace, proprio a partire dal peso che le guerre hanno avuto nella storia del Novecento, cominciate nel suo territorio. La logica funzionalista, cui dobbiamo la costruzione dell’integrazione europea e che ha ben operato nella difficile epoca della guerra fredda, oggi è arrivata al suo punto finale: la moneta unica. Da ora in avanti serve qualcosa di diverso e di più profondo.
Lo ha detto il premier Draghi a Bruxelles qualche giorno fa: serve una nuova conferenza intergovernativa per procedere nell’integrazione politica, processo fermo dal 2007. Serve farlo più speditamente, anche cominciando da chi vuole farlo realmente. Oggi la ricchezza economica, le istituzioni, le potenzialità, le risorse, tutto spinge verso una concezione più larga del nostro interesse europeo, cioè verso una visione più unitaria e non ripiegata su sé stessa ma proiettata verso il mondo. È necessaria una nuova ambizione.
Molti, nel mondo, guardano ai nostri paesi come all’esempio di società equilibrate, in cui il mercato non prevale sul sociale – almeno non nel modo in cui ciò avviene in altre parti del pianeta -, società multiculturali dove l’integrazione comincia a farsi strada, in un quadro di dialogo e scambio. Per l’Europa, ad esempio, è un grave errore ritirarsi progressivamente dall’Africa, un continente che fa parte – pur con tutte le sue differenze – del nostro stesso spazio culturale e geografico: lingua, emigrazione, in parte religione, storia, molto unisce l’Africa all’Europa. I nostri vicini richiedono un investimento di risorse e di pensiero da parte nostra. E gli strumenti per farlo sono a portata di mano.
La missione che si può pretendere dall’Europa è dunque quella di proporsi come una forza unificante, pacifica, democratica, capace di generare dialogo tra popoli divisi dalla storia, senza cancellarne le identità. Unità nella diversità: questo è il suo modello, il suo carisma. Ciò che è stato possibile per gli europei, può esserlo per altri popoli, specie quelli schiacciati dal peso di una memoria sofferta che può trasformarsi in una trappola micidiale.
È un passo necessario perché separati i paesi europei non contano. Nel mondo multipolare delle economie emergenti e delle nuove potenze per esistere e essere ascoltati occorre presentarsi insieme.
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