La rivoluzione di un conservatore

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L’eredità di Giovanni Paolo II era allora immensa, la figura del papa polacco, protagonista di un lunghissimo pontificato, sembrava schiacciare qualsiasi successore. Ratzinger ne era consapevole, per essere stato il suo più stretto collaboratore da un punto di vista dottrinale, per molti anni, ma ha avuto l’intelligenza di restare sé stesso, appunto un “operaio” della Chiesa senza pretese di imitare il suo predecessore.
A cominciare dalla scelta del nome, Benedetto, con due riferimenti: Benedetto da Norcia, padre del monachesimo occidentale, che ebbe un grande influsso nella diffusione del cristianesimo in Europa, e Benedetto XV, il papa che guidò la Chiesa nel travagliato periodo della prima guerra mondiale, da lui definita “l’inutile strage”, chiedendo ai belligeranti di fermarsi. Benedetto XV fu anche il difensore degli armeni minacciati di stragi nell’impero ottomano.
Se allora il distacco tra papa Wojtyla e papa Ratzinger fu chiaro, dopo l’atto forse più rivoluzionario e sorprendente del pontificato di Benedetto, le dimissioni del febbraio 2013, non sono mancati invece i confronti tra quest’ultimo e papa Francesco. Ci si è trovati di fronte a una situazione inedita, e per di più con un titolo particolare rivestito da Ratzinger, quello di papa emerito. Una situazione che ha ingenerato nei fedeli, assieme a certe errate interpretazioni ecclesiologiche e canoniche, una qualche confusione per la contemporanea presenza di due papi. In realtà, va detto, il papa è sempre e solo uno, quindi oggi Francesco.
Non a caso Ratzinger, dopo le dimissioni, è sempre stato molto attento a non intervenire nelle vicende della Chiesa, a non esprimere il suo parere sul governo di Francesco, nonostante qualche tentativo di dargli la parola e di metterlo in contrapposizione con il successore. Benedetto XVI sapeva bene che l’attuale papa è Francesco, il vescovo di Roma “venuto dalla fine del mondo”. La Chiesa è guidata quindi da Francesco, con il suo stile di governo particolare, diretto, spontaneo, ruotante attorno a temi e concetti quali la misericordia, l’uscita da un orizzonte autoreferenziale, la vicinanza ai più poveri, il mondo come un poliedro.
Tali sottolineature permettono di distinguere il papato di Bergoglio da quello di Ratzinger – come, del resto, da quelli degli altri pontefici del Novecento – ed è dunque possibile azzardare un confronto tra i quasi otto anni di Benedetto XVI e gli ormai dieci di Francesco. Gli elementi di continuità, in ogni caso, sono molto più presenti di quanto una superficiale analisi dei caratteri dei due protagonisti in questione lasci supporre, anche se bisogna guardare anche al diverso scenario in cui essi si sono mossi.
Il papato ratzingeriano, infatti, è ancora ascrivibile al papato europeo, con le sue radici culturali e teologiche nel nostro continente, solo liminalmente toccato dal tempo della globalizzazione, con la storia che appariva ancora unipolare. Quello bergogliano, iniziato invece mentre la globalizzazione sembrava vincente, è già entrato nel tempo della deglobalizzazione, e si muove ormai nel quadro di una nuova e acuta rivalità fra le grandi potenze, nonché di uno slabbrarsi dell’ordine internazionale, tanto da far parlare il pontefice di una “terza guerra mondiale a pezzi”. Benedetto XVI iniziò il proprio mandato in una Chiesa rivitalizzata dall’enorme prestigio di Giovanni Paolo II. Mentre Bergoglio è partito dall’idea di una Chiesa in uscita verso le periferie umane ed esistenziali, frutto anche della sua esperienza pastorale in una megalopoli sudamericana come Buenos Aires.

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