“La solidarietà come apriporta spirituale della Pace nell’epoca della “intranquillità” e dell’individualismo

Intervista al presidente della Comunità di Sant'Egidio, Marco Impagliazzo, domenica a Francavilla in Sinni per l'incontro "Promuovere la Pace per servire la Vita"

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“Contro la guerra c’è la solidarietà, che è l’apriporta spirituale della Pace”. Il professor Marco Impagliamo accetta volentieri di approfondire con La Nuova del Sud i temi che ha affrontato nel suo intervento “Promuovere la pace per servire la vita”, che si è svolto domenica a Francavilla in Sinni.
Il presidente della Comunità di Sant’Egidio, però, inizia il nostro dialogo raccontando un particolare toccante, avvenuto pochi minuti prima: “Oggi la nostra comunità di Genova ha accolto un gruppo di bambini scampati al disastro di Gaza e mi hanno appena inviato la foto di uno di loro che non ha più nessuno al ondo. Familiari e parenti sono tutti morti e il suo volto è sfigurato delle ferite riportate durante i bombardamenti. Accogliere quel bambino, prendersi cura di lui, non è solo un gesto d’amore, ma è anche un atto di Pace. Chi vuole costruire la Pace si schiera sempre dalla parte delle vittime, per questo accogliere i profughi è importante: sono loro, con i loro volti, le loro sofferenze a farci comprendere che esistono le guerre e che ci riguardano. Accogliere è lavorare per la Pace, mentre chiudere le porte ai migranti è favorire la guerra”.
Molte persone hanno seguito l’incontro di formazione unitaria (sacerdoti, diaconi, religiosi e fedeli laici) promosso dalla diocesi di Tursi-Lagonegro, che si è svolto domenica scorsa al Cineteatro “Columbia” e al quale hanno partecipato, insieme a lei, monsignor Antonio Staglianò, presidente della Pontificia Accademia di Teologia, e il vescovo monsignor Vincenzo Orofino. Le parole ascoltate durante l’incontro, che è stato introdotto da don Gianluca Bellusci, hanno colpito tutti, evidenziando il desiderio dei lucani di affrontare insieme tante cose. Lei che impressione ha avuto?
“C’era un’assemblea diocesana molto attenta, con uno spirito ecclesiale molto forte intorno al vescovo e ai sacerdoti. Sono rimasto colpito dall’ascolto profondo che c’è stato, perché vuol dire che c’è un “noi” nella Chiesa di Tursi-Lagonegro. Vedere un cammino comune, in un tempo nel quale siamo abituati a divederci e a percorrere strade individualiste, è confortante. Inoltre in questa terra ritrovo sempre tanti amici, come la Cooperativa Auxilium, Angelo Chiorazzo, monsignor Orofino. Mi sento anche io in parte lucano, da quando nel 2020, insieme ad Andrea Riccardi, ho ricevuto dalle mani del sindaco Fausto De Maria la cittadinanza onoraria di Latronico, dove è ancora molto viva la memoria di sant ‘Egidio abate”.
Partendo da una citazione di Jonathan Sacks, lei ha parlato di un “cambiamento climatico culturale, che è avvenuto con il passaggio dal noi all’io”. Un io narcisista, lontano dall’aspirazione alla fraternità cristiana…
“Il Cristianesimo è comunione e questo necessita di un incontro concreto, di comunità reali e non virtuali. La Chiesa fa più fatica ad esprimersi in un mondo definito dall’individualismo, dove è difficile mettersi insieme e concepire la propria felicità in relazione a quella degli altri. Per questo è importante riunirsi come viene fatto nel cammino sinodale, ma dobbiamo anche tornare ad insistere sulla frequenza alla messa, su celebrazioni dove si predichi il Vangelo e si renda ragione della bellezza dell’essere insieme” .
Lei collega, all’interno di un unico grande cammino, la cura del più debole – che sia un anziano fragile, o un bambino malato, o un migrante – con quella dell’ambiente e con la risoluzione dei conflitti. La solidarietà è un apriporta ha detto, ma rappresenta anche qualcosa di più in questo Mondo dove si contano più di 60 guerre in atto?
“Noi viviamo l’epoca della “intranquillità” , come hanno scritto Teodoro Cohen e Miguel Benasayag nel loro libro: siamo nati nell’epoca del realismo economico, che ordina i processi sociali attraverso l’individualismo bruto e il delirio narcisista. Due fatti hanno reso più evidente ciò che domina la nostra epoca: la pandemia, con l’isolamento che da necessario per motivi sanitari è divenuto un modo di vivere, e l’invasione dell’Ucraina, che ha riaccreditato la guerra come strumento per risolvere i contenziosi in Europa. Noi dobbiamo partire da quello che Papa Francesco ci disse durante la pandemia, ovvero che siamo tutti sulla stessa barca e che nessuno si salva da solo. E, poi, dal messaggio della Fratelli Tutti. Questi punti offrono una lettura umana e sapienziale di tanti problemi: come quello che in Italia ci sono otto milioni di persone che vivono sole, la maggioranza delle quali sono anziane, ma ci sono anche tanti giovani che non hanno più luoghi di aggregazione e che sono schiacciati dal mondo degli adulti, che li vezzeggia ma non li educa. La soluzione non può essere unigenerazionale e per questo la Chiesa ci richiama sempre all’incontro tra le diverse generazioni. Ma ci richiama anche all’impegno per la Pace, che è l’unico antidoto al veleno della guerra che si diffonde nel mondo. Costruire comunità, ambiti di fraternità, vuol dire alzare dighe all’individualismo, all’egoismo, alle contrapposizioni che portano all’odio e ai conflitti”.
Purtroppo la guerra è tanto distruttiva quanto espansiva e la Pace potrebbe sembrare ai più un’utopia per anime belle…
“Ci siamo illusi del fatto che le guerre degli altri non ci riguardavano e in questi decenni si è lavorato pochissimo per la Pace, fatta salva l’opera dei papi. Ciò che sta facendo Papa Francesco è in linea con i suoi predecessori e io ricordo sempre l’intuizione di Giovanni Paolo II che chiese alle religioni di ritrovare insieme, nello spirito di Assisi, le ragioni della Pace, per riproporle ai loro fedeli ma anche agli Stati. Oggi se il Papa non viene ascoltato è un problema di chi si tappa le orecchie. La posizione del Pontefice sull’Ucraina, ad esempio, è l’unica strada per uscire da questa crisi e aiutare gli ucraini che soffrono. Lavorare per la Pace non è aiutare Putin, dobbiamo togliere ogni ambiguità” .
Si torna a parlare dell’impegno dei cattolici in politica, anche se unità e partito cattolico sono finiti 30 anni fa. Qual è la prospettiva oggi?
“I cattolici in politica ci sono sempre stati e ci sono ancora. Oggi vedo un nuovo fermento. Lo vedo nell’esperienza di Demos, che è stata iniziata da alcuni amici di Sant’Egidio, da Mario Giro, da Paolo Ciani e da vari gruppi cattolici. Vedo questo fermento anche nella candidatura di Angelo Chiorazzo in Basilicata, come tentativo di dare un contributo nuovo, che parte dall’attenzione alle fasce più deboli della società e alle persone scartate. Oggi c’è bisogno di questo fermento non solo in Lucania, ma anche a livello nazionale ed europeo. La prospettiva non è quella di ricostruire un partito cattolico o il partito dei cattolici, ma un’alternativa culturale ad una politica che ha smesso di incontrarsi con i cittadini, che riempie social e televisione ma non sta tra la gente” .

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