Sono ore confuse quelle che si vivono in Russia, dopo che il leader della Wagner, Evgenij Prigozhin, ha chiamato alla ribellione contro il ministro della difesa russo e i generali a comando delle forze armate. La durissima reazione di Putin, contro un suo antico alleato, dà la misura della gravità della situazione. In attesa di capire quali sviluppi avrà la rivolta è chiaro che la guerra in Ucraina, come purtroppo ogni guerra, sta innescando processi imprevedibili e ingovernabili.
Recentemente sono stato invitato a intervenire al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sul lavoro per la pace di Sant’Egidio. Non è la prima volta: era già accaduto per situazioni di crisi in cui Sant’Egidio si impegna a costruire pazientemente vie di dialogo e di pace. In queste situazioni in cui la guerra rischia di rendere il mondo ingovernabile le Nazioni Unite rimangono un punto di riferimento imprescindibile per la ricerca della pace. Può sembrare strano che una comunità cristiana, nota per il suo lavoro con i più poveri, sia chiamata a parlare nell’istituzione multilaterale che per eccellenza ha il compito di difendere e promuovere la pace nel mondo. Eppure, già Paolo VI all’ONU parlò dei cristiani come “esperti di umanità”. Questo essere esperti– per Sant’Egidio – nasce da una risorsa cresciuta negli anni: l’interesse per l’orizzonte del mondo, spesso per paesi dimenticati, vissuto con fedeltà e in una molteplicità di contatti. Del resto, l’insegnamento dei papi, dall’inizio del Novecento a oggi, è segnato da questa domanda di pace che sale dai popoli.
Una domanda resta oggi aperta di fronte allo scenario, che viviamo, di una terza guerra mondiale a pezzi: la pace è ancora possibile? Lo crediamo con grande convinzione, ma bisogna trovare le vie per realizzarla, con pazienza, ricostruendo le fratture, creando un’intelaiatura di garanzie per il futuro, dando sbocco alla volontà di pace di popoli “ostaggi” della guerra, di una cultura o di una propaganda di guerra.
Negli ultimi decenni si è manifestato anche il fatto che le religioni possono essere sostegni decisivi per la pace. Il dialogo tra le religioni per la pace, rilanciato fortemente da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986, è apparso a taluni ingenuo, in un mondo che sembrava destinato allo scontro di civiltà e di religione. In realtà sta rivelando una forza inattesa, come mostra anche il documento sulla fraternità umana firmato da papa Francesco ad Abu Dhabi nel 2019: la pace si costruisce anche nel dialogo tra le religioni. Non è un’ingenuità, è una necessità. C’è chi pensa il contrario e cioè che la guerra sia necessaria.
A questo assioma la Chiesa non ha creduto. Non si tratta di pacifismo di principio, ma di realismo maturato attraverso l’esperienza pacificatrice dei diversi conflitti.
Ciò che preoccupa è che il conflitto – anche all’interno delle società, non solo quello tra Paesi diversi – è tornato ad essere “popolare” tra la gente. In alcune situazioni si è fatto in modo che ci si convincesse che il ricorso alla guerra sia inevitabile. Tale dimostrazione ha sempre bisogno di menzogne e falsificazioni per fare leva. A guardare le società europee sembra non essere bastata la lezione delle tragedie del XX secolo, tanto che ancora si cercano i nemici e i capri espiatori, fossero immigrati, rom, ebrei o altre minoranze.
Il disprezzo per l’altro, per il diverso, sembra la cifra del nostro tempo. Molte guerre di questi anni sono state spiegate come prodotti ineluttabili di fatti oggettivi, indipendenti dalla volontà dei popoli. Ipocritamente nessun leader ammette di scegliere per la guerra. Sostiene invece che la guerra “lo ha scelto” e di essere stato costretto a rispondere all’“appello della storia”. È la guerra delle identità, delle etnie, del cacao, del petrolio, dei diamanti, del coltan, dell’acqua: cosa c’è di più reale e di più “incontournable” di tali realtà che l’uomo non controlla? In altre parole: se si verificano alcune condizioni, certamente vi sarà una guerra. Così si diffonde la cultura della contrapposizione, “inzuccherata” dal vittimismo, vera impronta comune della cultura globale. Il disprezzo comincia a giustificare la violenza e poi la guerra. La guerra e il disprezzo, infatti, si fanno cultura e deformano l’anima di popoli interi. In questo senso la diplomazia della pace necessita di un nuovo slancio.
Se c’è un metodo – ma non ce n’è uno solo perché le situazioni sono diverse – è quello antico di un diplomatico della Chiesa, Angelo Roncalli, poi Giovanni XXIII, che diceva: “bisogna cercare quello che unisce e mettere da parte quello che divide”. Quello che unisce – in tutti i casi – è l’appartenenza ad una comune famiglia nazionale, regionale o continentale, come ad esempio l’Europa. Quello che unisce diventa – ed è un successo – la convinzione che non c’è futuro con l’eliminazione dell’altro. Bisogna, insomma, riconoscere che l’una parte e l’altra hanno un posto nel futuro del proprio paese o anche in un contesto geopolitico più vasto.
La pace non è una cosa sola, non è soltanto trattative ma anche convivenza (pace preventiva), costruzione di una società compassionevole, lavoro per la tutela dei diritti. La cultura dominante non ha simpatia per il lavoro per la pace e vi scorge sempre una “rinuncia”, alla propria forza, identità o ragioni. Sono tanti coloro che considerano l’impegno per la pace un’ingenuità. La storia della pace in Mozambico, mediata da Sant’Egidio e firmata a Roma nel 1992, dimostra che c’è una forza di pace dei cristiani che si trasforma in visione offerta a tutti, cioè che è sempre possibile fare la pace, trovare una strada che passi attraverso le persone – anche le più indurite – provando a guarire con pazienza la patologia della memoria, i rancori, le ideologie, il disprezzo. E’ una forza debole da cui nasce una “politica della compassione” e della presenza nelle crisi che è non voltarsi dall’altra parte o scegliere rapide vie d’uscita, ma con pazienza, riservatezza e con il tempo ricostruisce il tessuto che si è lacerato: anche questo è il lavoro della diplomazia della pace.
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