Condividere il patrimonio culturale, costruire relazioni a partire dall’arte e dalla storia, riconoscere come i popoli siano molto più intrecciati di come li dipinge la politica con i suoi steccati: per avvicinarsi alla pace anche il dialogo attraverso la cultura può essere una strada. Ecco le voci di chi già la sta percorrendo. Al massimalismo della politica, alla sete di guerra, ai millenarismi ideologici si può rispondere solo attraverso una diplomazia con la cultura dell’umano
Il “cambiamento d’epoca” di cui parla papa Francesco si manifesta davanti ai nostri occhi come una sorta di giano bifronte: da una parte sembra tornata con prepotenza l’epoca delle sfere di influenza dove potenze grandi e medie si contendono terre e ricchezze. Una stagione della forza in cui le regole sono la competizione e la contrapposizione. Dall’altra appare sempre più grande il bisogno di multilateralismo per affrontare le grandi sfide del futuro, come quella della preservazione dell’ambiente, della vittoria sulla fame e sull’estrema povertà e soprattutto della pace.
La guerra fa sentire il suo morso e ci fa assuefare alle tragiche manifestazioni del male: armi, morti, macerie, tragedie di ogni sorta, il tutto spettacolarizzato come se fosse normale e naturale. Tuttavia, anche i più cinici ammettono che una via di uscita va trovata. La storia riserva sempre sorprese: nulla faceva presagire la caduta del muro di Berlino nel novembre 1989 e la fine della guerra fredda. Tra il 1991 e il 2006 il numero dei conflitti armati è diminuito sensibilmente mentre aumentavano le paci stabili. Il mondo ha assistito stupefatto alla fine dell’apartheid nel 1994 e ancor prima alla pace in Mozambico del 1992, negoziata da Sant’Egidio. Anche il numero dei veti esercitati nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si abbassò drasticamente e le missioni di peacekeeping dei caschi blu dell’Onu aumentarono di ben sette volte rispetto al quasi cinquantennio precedente e al quasi ventennio successivo.
Ma oggi la globalizzazione è entrata in crisi, mostrando come fallimentare sia l’illusione di gestire il mondo solo con il denaro e la tecnologia. Scrive lo storico Philipp Blom: «Vincere rende stupidi. La vittoria del mondo liberale dopo il 1989 è stata così schiacciante che molte persone in Occidente non si sono più poste domande fondamentali». Lo diceva già la Bibbia: «l’uomo nella prosperità non comprende».
All’interno delle nazioni prospere i ricchi sono diventati molto più ricchi mentre i poveri sono aumentati, con il declassamento di intere classi medie impoverite. Abbiamo assistito alla collera di chi si sentiva declinare, i forgotten cioè i dimenticati della grande prosperità globalizzata. Gli scartati sono aumentati di maniera esponenziale. Dal volgere del Millennio l’età della rabbia ha coperto l’ottimismo degli anni Novanta. Tutti vediamo ciò che accade e siamo molto più informati delle generazioni precedenti e ciò aumenta frustrazioni e rancore. Ha scritto Andrea Riccardi: «Oggi anche chi vive nei posti più remoti è come se fosse sempre sulla terrazza dell’universo».
Lo spaesamento si diffonde ma anche la speranza di trovare un posto migliore: oltre 280 milioni di persone sono in movimento: 165 migranti economici, 32 milioni di rifugiati e 70 milioni di sfollati. Ci si spaventa per tali flussi che tuttavia rappresentano anche un segnale di attesa, un desiderio. Come dice il messicano padre Alejandro Solalinde: «I migranti sono un segno dei tempi». Da una parte sono le vittime del neoliberismo selvaggio o delle guerre. Al contempo però sono i pionieri del futuro che anticipano, con la loro ostinata resistenza, la possibilità di una nuova società. Hanno il coraggio di rischiare.
Quale sarà la possibile medicina per un mondo così contraddittorio, sottoposto allo stesso tempo a speranze e chiusure, a paure e a grandi aspettative? Il divorzio della politica dalla cultura ha lasciato i leader senza radici. Una volta esistevano culture politiche sulle quali basare un progetto di società. Oggi tutto si è progressivamente frammentato: con la morte delle ideologie sono cadute anche molte utopie e sono finite molte reti che guidavano i percorsi delle società. Abbiamo bisogno di un nuovo tempo di entusiasmo e di passione per l’umano.
La diplomazia sembra una pratica calcolatrice; eppure, offre spazi di incontro e dialogo di cui abbiamo bisogno. Si tratta dell’arte dell’incontro tra popoli e paesi diversi. Olivier Roy parla di appiattimento del mondo a causa della crisi della cultura. In questo mondo condizionato dalla rapidità del presentismo, si fa largo una nuova consapevolezza: le guerre, la violenza, la contrapposizione tra potenze non portano a nulla. Non solo la guerra è “una resa vergognosa” come la definisce il papa, ma è anche inutile. Si torni dunque alla diplomazia, cioè al dialogo ragionevole e pragmatico, e gradualmente si rifaccia la strada a ritroso per scardinare l’odio e curare le ferite dell’anima dei popoli che si combattono, come tra israeliani e palestinesi. Entrambi hanno bisogno di tutti i loro amici e non soltanto di piani economici di ricostruzione. Ciò è valido anche per il conflitto in Ucraina e per le guerre d’Africa, nel Sudan spezzato o nel caotico Kivu.
Riavvicinare diplomazia e cultura significa non commettere di nuovo l’errore di affidarsi solo al denaro. La drammatica escalation delle guerre nel mondo di oggi ci rende consapevoli della crisi di una politica che ha scelto di sottomettersi all’economia, pensando di trovarvi una soluzione magica per tutto. Non può mai essere così: popoli e stati sono un complesso intreccio di storia, memoria e identità culturale che non si può calcolare con il prodotto interno lordo. Servono urgentemente conoscenza approfondita di situazioni e problemi, capacità di analisi, chiarezza di obiettivi, pazienza nel perseguirli. Solo una cultura politica adeguata, connessa agli strumenti della diplomazia, può garantire il futuro comune.
Se questo manca prevalgono fondamentalismi millenaristi, fanatici ideologismi deculturalizzati e deterritorializzati. Il jihadismo dell’Isis era un tipico prodotto artificiale di una religione fuorviata senza terra né retroterra culturale, addirittura senza lingua (l’arabo). Un neoprodotto religioso formatosi su internet che non aveva più nulla da vedere con l’Islam.
Il solo modo per ripensare la pace è una diplomazia con una cultura dell’umano. Il tecnopopulismo, l’intelligenza artificiale al posto di quella naturale, l’anonima legge dell’indefinito sviluppo, il transumanesimo e così via non potranno mai spegnere la necessità di uno sguardo e di un pensiero profondo e critico. Solo un umanesimo ispirato dalla fede, come sostiene papa Francesco nella Fratelli tutti, può mantenere un senso critico davanti al futuro e indicarci una via comune.
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