Il governo italiano ha convocato la cabina di regia per l’avvio del “Piano Mattei” per l’Africa. Un fatto di rilievo nella nostra politica internazionale, per tanti motivi, mentre l’Italia assume la presidenza del G7. L’Africa è un continente in gran parte sconosciuto, sfugge quasi alla vista, anche se crediamo di conoscerlo. Non è facile presentarne il volto attuale, complesso, sfumato, contraddittorio.
Ha scritto recentemente Federico Rampini: «Parlarne solo come una catena di calamità destinate ad abbattersi su di noi, e sempre per colpa nostra, è una deformazione tutta occidentale». In effetti la descrizione del continente che si fa generalmente – sia pessimistica che idealizzata – pare superficiale e semplicistica. Più che la narrazione delle “colpe” dell’Occidente – che alla fine diventa un modo per chiudere il discorso e vivere separati – sarebbe bene riflettere sulle responsabilità e sul futuro comune.
In Europa, talvolta, si ha la sensazione che tutto il continente sia candidato a emigrare verso il Nord: non è questa una analisi convincente. L’Africa percepita come minaccia è la costruzione di una cultura del declino che si è insinuata nelle pieghe della nostra società, invecchiata e sempre più impaurita. L’utilizzo della questione migratoria in chiave elettoralistica ha reso l’Europa preda di una narrazione falsa. Ciò che è diversa è l’antropologia: davanti a un’Europa più vecchia, c’è un’Africa sempre più giovane. Il 70% degli africani ha meno di 25 anni. L’Africa giovane è piena di energie, dinamicità e voglia di intraprendere e questo può spaventare un mondo più ricco, anziano e ripiegato.
Spesso i giovani africani sentono di non avere scelta e partono per viaggi rischiando la vita. La loro è una rivolta antropologica nei confronti di quello che sentono essere un doppio abbandono: da parte degli anziani e degli adulti che detengono il potere, corrompono e non distribuiscono; e da parte dell’Europa e del mondo più agiato che sembrano a portata di mano. Guardano sugli schermi dei loro cellulari una vita migliore e la ricercano, a rischio della vita. Si chiedono: perché morire per malattie che altrove si possono curare facilmente? Perché non rischiare?
C’è anche un mutamento di mentalità e progetti: questi giovani non credono più nei sogni dei loro padri, legati a un ideale comune (socialismo africano, unità regionale, panafricanismo), ormai tramontato nella corruzione, nell’autoritarismo o nelle guerre. Loro sono più individualisti e intraprendenti. È una rivolta dell’IO africano, giovane e dinamico, che cerca disperatamente un futuro. Ci sono i conflitti e la povertà ma la spinta migratoria parte piuttosto da questa rivoluzione antropologica.
Resta il problema di costruire un futuro nel continente: come aprire spazi di educazione, libertà, giustizia e sviluppo nei propri paesi. Tanti africani lo vogliono, non tutti desiderano andarsene: c’è dialettica tra chi vuole muoversi e chi si batte per cambiare il proprio paese. Ma alla fine, ai giovani africani la globalizzazione concede oggi tre opzioni, tutte individuali: il mestiere delle armi (etniche, nelle milizie o nel jihadismo); sfondare nel business (fare i soldi, anche se pochi ci riescono); andarsene. Gli africani decidono ormai da soli e se ciò vale per i giovani, vale sempre più spesso anche per i governi.
Occorre con un’urgenza una nuova opzione. Prima di tutto una maggiore responsabilità da parte delle classi dirigenti africane, con programmi che puntino allo sviluppo dei singoli Paesi e non più al tradizionale richiamo identitario (partiti sostanzialmente “etnici”) o alla continua recriminazione sulle colpe del passato, con il semplice scopo di conservare il potere. Al tempo stesso appare strategica una collaborazione dell’Europa in chiave non più di contenimento delle paure migratorie ma di investimento in risorse non solo economiche, ma culturali e sociali. Per ridare speranza ad un continente da cui dipende in gran parte il futuro del mondo.
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