Antidoto memoria. 16 ottobre 1943

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Avvenire, 12 ottobre 2013

Papa Francesco ha ricevuto i rappresentanti della Comunità ebraica romana guidati dal rabbino capo, Riccardo Di Segni. È un incontro che conferma la salda amicizia tra la Chiesa e gli ebrei, ma è ancora più significativo per il fatto che si incontrano il vescovo e il rabbino della città. Roma conosce la presenza ebraica da più di due millenni e sullo sfondo del colloquio saranno state anche ricordate le pagine più dolorose di questa presenza, come quella del 16 ottobre 1943, con la razzia degli ebrei romani e quella del 9 ottobre 1982 con l’uccisione da parte di terroristi palestinesi del piccolo Stefano Taché davanti alla Sinagoga.

Il 16 ottobre 1943 è una data indimenticabile per la comunità ebraica di Roma, ma anche per la città intera: più di mille furono deportati ad Auschwitz. Soltanto 16 tornarono a Roma vivi. Per gli ebrei romani è l’ultima tappa di un triste itinerario iniziato nel settembre del 1938 con la promulgazione delle leggi razziste. Tra queste due date esiste un profondo legame: le leggi razziali hanno rappresentato, in Italia, l’anticamera dei campi di sterminio nazisti. Il 1938 è un anno cruciale.

La vita, per gli ebrei, cambia in tutti i suoi aspetti, pubblici e privati. È una svolta che coinvolge tutti, dai bambini agli anziani, da chi nasce a chi muore. Da quella data gli ebrei in Italia devono diventare “invisibili”. Tuttavia, come avrebbe mostrato il 16 ottobre, gli ebrei erano molto visibili e facilmente reperibili: erano registrati e minuziosamente classificati, quindi perfettamente identificabili, per separare il loro destino da quello del resto della popolazione romana.

Alcuni nomi: Clara Wachsberger di 5 anni, Ada Tagliacozzo di 8 anni, Donato Campagnano di appena 3 mesi, Umberto Di Segni di 4 anni. Per i nazisti non si trattava di bambini, ma di soggetti pericolosi per il Terzo Reich. Erano piccoli ebrei romani, alcuni tra i più di mille: uomini, donne, bambini e anziani, che il 16 ottobre 1943 furono strappati dalle loro case e arrestati perché considerati acerrimi “nemici”, come aveva sentenziato il capo della polizia tedesca a Roma Herbert Kappler.

Era stato Kappler, alla fine di settembre del 1943, a imporre agli ebrei della capitale una taglia di 50 chili d’oro, «non sono le vostre vite che vogliamo, né i vostri figli, ma il vostro oro», aveva detto. Evidentemente mentiva: dopo l’oro i nazisti si presero le vite degli ebrei romani e dei loro figli. Il 72% dei deportati erano donne e bambini al di sotto dei 15 anni. Una deportazione di donne e bambini. Un vero orrore di fronte a cui la popolazione della città rimase impietrita. Fulvia Ripa di Meana fu testimone della razzia e vide alcuni dei 311 minorenni arrestati.

Di loro scrisse: «Non piangevano più quei bambini, il terrore li aveva resi muti». Tanta barbarie suscitò per reazione l’istinto del bene, che porta a soccorrere gli inermi, al di là di qualsiasi calcolo o interesse: in alcuni casi, nella grande confusione che regnava in quei momenti, passanti occasionali tentarono di prendere come propri i bambini catturati o si videro affidati bambini in mezzo alla strada da genitori disperati.

«La condotta della popolazione italiana è stata di resistenza passiva, che in molti casi individuali si è trasformata in aiuto attivo. Sono stati notati molti individui che, in alcuni casi, hanno tentato di intromettersi fra la polizia e gli ebrei», scrisse Kappler a Berlino dopo la razzia. Molti ebrei lo stesso 16 ottobre cercarono e trovarono rifugio nelle parrocchie romane o nelle chiese.

Diversi furono salvati da sacerdoti e religiosi quel giorno stesso, come ha mostrato ampiamente Andrea Riccardi nel suo “L’inverno più lungo”. L’attività di accoglienza clandestina negli ambienti ecclesiastici della capitale fu molto vasta: vi trovarono rifugio circa 4.000 ebrei. Da venti anni il 16 ottobre, grazie all’impegno della Comunità ebraica e di Sant’Egidio è diventata una memoria cittadina che coinvolge tantissimi giovani italiani e immigrati. Le ombre lunghe di quel giorno lambiscono anche il nostro tempo, perché l’antisemitismo e il razzismo sono purtroppo ancora in agguato.

Settant’anni non sono passati invano. Negli ultimi due decenni, in particolare, è cresciuta la consapevolezza della ferita inferta dai nazisti e dai repubblichini italiani, loro collaboratori, al volto e alla storia di Roma e dell’Italia Ma c’è ancora bisogno di educazione e vigilanza. Entrambe si nutrono di memoria.

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