Per governare correttamente le migrazioni (260 milioni di persone l’anno nel mondo), occorre passare alle politiche ordinarie, rinunciando alla visione emergenziale e lavorando con un approccio interdisciplinare. È la conclusione delle lezione aperta alla città, organizzata dall’università di Bergamo per Next Level, sul rapporto migrazioni/ territori, «tra frontiere, conflitti e ricomposizioni culturali». Ospiti della tavola rotonda Marco Impagliazzo presidente della Comunità di Sant’Egidio, Olivier Lompo, responsabile per il Rwanda dell’Unhcr, il commissariato Onu per i rifugiati e Martina Albini, Coordinatrice Advocacy dell’ong We World.
L’argomento è stato introdotto da tre docenti dell’università : Alessandra Ghisalberti, geografa; Barbara Turchetta, linguista e Paola Scevi, giurista che hanno affrontato i nodi del rapporto dei migranti con il territorio, con la lingua e con il diritto. Il territorio è uno spazio «arredato» da strutture, edifici, paesaggio, ma anche da dati immateriali, per esempio i nomi delle cose, espressi in una lingua che rimanda ai contenuti di una cultura specifica. L’affacciarsi di nuove parole e modi di dire segnala l’arrivo e lo stabilizzarsi di persone portatrici di altre culture, che non sappiamo né valorizzare né accogliere. Sappiamo però che il 93% dei bambini stranieri fino a 5 anni sono nati i Italia, mentre il 7% in età scolare ha un’altra madrelingua, cioè è portatore di più culture.
In un contesto multiculturale va riordinata la concezione e la percezione della formazione dei diritti, che di solito nascono entro ambiti culturali omogenei, ma che oggi devono poi essere applicati a persone che provengono da culture differenti. In ambito penale, per esempio, vi sono reati, soprattutto contro le donne o i minori, che non sono considerati tali nelle culture d’origine. Che fare? I diritti fondamentali della persona vengono per primi, i diritti culturali sono in subordine: ciascuno ha diritto alla vita, alla libertà, al rispetto della propria coscienza e integrità, oltre qualsiasi tradizione.
Chiara la visione politica di Marco Impagliazzo. La Comunità di Sant’Egidio ha «inventato» e gestisce, con il supporto della comunità civile, i corridoi umanitari con i quali 7.000 persone a rischio ma che non rientrano nella casistica di rifugiati sono entrati legalmente in Italia. «I migranti in Europa sono gestibili con una politica di redistribuzione. Invece di utilizzarli come mezzo di scontro politico, occorre prendere atto che le migrazioni sono una questione strutturale, alimentata da molte cause non separabili, per cui occorrono politiche ordinarie. Il tema della migrazione è complesso e sfaccettato, ricco anche di opportunità di sviluppo per tutti, visto che fra i migranti vi sono vari tipi di competenze e professioni, ma viene trattato con logiche semplificatorie per creare allarme sociale».
Olivier Lompo conferma che solo un approccio multidisciplinare alle migrazioni e ai rifugiati può funzionare perché per gestire le situazioni umane e i contesti locali occorrono molti dati di ogni tipo. «Chi fugge non porta niente con sé, donne e bambine sono le più denutrite, ma nei Paesi di accoglienza è tutto diverso da casa, a partire dal cibo. I campi non possono sorgere in luoghi senz’acqua, ma non si può nemmeno penalizzare chi già abita quel territorio. E occorre fare attenzione in caso di nemici tradizionali. Salvata la vita, i rifugiati devono essere inseriti nel nuovo Paese mettendo a frutto la loro cultura e infine, appena possibile, riportati a casa. Un processo lungo e complesso che chiama a collaborare molte competenze».
Martina Albini di We World porta l’esperienza di Ventimiglia, dove «si sta profilando una crisi umanitaria, in un luogo dove le situazioni si sono cronicizzate, l’intervento pubblico è venuto meno e la gente ha modificato in peggio l’atteggiamento originario di accoglienza». Il dibattito finale è stato condotto da Sara Belotti, con domande sui migranti climatici e l’accordo Gran Bretagna-Rwanda per il trasferimento dei profughi.
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