Per parlare di cittadinanza basta guardarsi attorno quando si vanno a prendere i figli a scuola, quando li accompagniamo alle feste di classe, quando giocano o fanno sport: la parlata spesso dialettale di tanti bambini e bambine di origine straniera, ma soprattutto l’amicizia che stringono con i loro coetanei, italiani per nascita, ci dicono più del nostro Paese che di quello dei loro genitori, nonostante il cognome o i tratti somatici. In altre parole, è la realtà di un’Italia profondamente diversa e cresciuta rispetto al 1992, l’anno in cui vennero varate le regole di base che decidono ancora oggi chi può essere italiano, dopo un iter lunghissimo.
Nel frattempo, le famiglie di immigrati, ormai integrate da anni, continuano a fare figli in un’Italia dal profondo buio demografico, e sono ormai centinaia di migliaia i nati o cresciuti nel nostro Paese ma ancora senza cittadinanza. Avvenire ha voluto riaprire il dibattito su questo fondamentale diritto per i minori
Nel frattempo, le famiglie di immigrati, ormai integrate da anni, continuano a fare figli in un’Italia dal profondo buio demografico, e sono ormai centinaia di migliaia i nati o cresciuti nel nostro Paese ma ancora senza cittadinanza. Avvenire ha voluto riaprire il dibattito su questo fondamentale diritto per i minori
che frequentano le nostre scuole. In diversi editoriali si è sottolineato che è la scuola – e non il sangue, o il Dna – al centro del processo di formazione dell’identità nazionale. Perché ancora oggi la scuola continua a portare avanti la mission che ha sempre avuto, sin dagli albori del nostro giovane Stato nazionale, quella di “fare gli italiani`:
«Vogliamo farci carico di un milione di bambini e adolescenti rimasti nel limbo?» si è chiesto Diego Motta. Mentre Eraldo Affinati ci ha parlato di «Claudia, nata a Roma, naturalmente bilingue, che insegnava a leggere e scrivere a un profugo, [facilitatrice] perfetta, lungimirante e consapevole del ruolo che stava esercitando», benché non fosse ancora giuridicamente italiana. E Daniele Novara ci ha ricordato che «la scuola resta il luogo privilegiato per acquisire una cittadinanza che consideri l’assorbimento della lingua, delle regole e del saper vivere assieme secondo principi democratici, come elementi basilari, che prescindano dal luogo d’origine dei genitori».
Se la nuova Italia è quella che emerge anche a Sanremo – vedi l’esempio di Ghali o di Mahmood – , la vecchia è quella della nostra normativa in materia di cittadinanza. Le norme in vigore, è bene ricordarlo, sono state pensate quando eravamo ancora solo marginalmente un Paese di immigrazione. E però, nella difesa dello status quo legislativo, nel nome di una contrapposizione estremizzata ius sanguinis-ius soli, si sono innalzate barricate, lanciati anatemi, profetizzati disastri. In realtà, la questione non è più in tali termini, e da tempo.
Il punto di caduta di ogni possibile riforma è il concetto che già l’allora Ministro per l’Integrazione Andrea Riccardi aveva definito di ius culturae: è italiano non solo chì è nato tale, ma anche chi lo diventa. E lo si diventa, tra l’altro, frequentando regolarmente, per almeno 5 anni, uno o più cicli presso istituti del sistema nazionale d’istruzione. La cittadinanza diviene allora un processo, non breve, ma neanche lunghissimo, in cui la nostra lingua, la nostra tradizione culturale, il nostro umanesimo, forgiano un individuo rendendolo indistinguibile, nonostante l’origine, da tanti altri concittadini.
Andando a rileggere “Cuore” vi si trova: «Ieri sera entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri. Allora il maestro gli prese una mano, e disse alla classe: – Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato […] a più di 500 miglia di qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Derossi abbracciò il calabrese, dicendo con la sua voce chiara: – Benvenuto! – e questi baciò lui sulle due guance, con impeto. Tutti batterono le mani».
«Vogliamo farci carico di un milione di bambini e adolescenti rimasti nel limbo?» si è chiesto Diego Motta. Mentre Eraldo Affinati ci ha parlato di «Claudia, nata a Roma, naturalmente bilingue, che insegnava a leggere e scrivere a un profugo, [facilitatrice] perfetta, lungimirante e consapevole del ruolo che stava esercitando», benché non fosse ancora giuridicamente italiana. E Daniele Novara ci ha ricordato che «la scuola resta il luogo privilegiato per acquisire una cittadinanza che consideri l’assorbimento della lingua, delle regole e del saper vivere assieme secondo principi democratici, come elementi basilari, che prescindano dal luogo d’origine dei genitori».
Se la nuova Italia è quella che emerge anche a Sanremo – vedi l’esempio di Ghali o di Mahmood – , la vecchia è quella della nostra normativa in materia di cittadinanza. Le norme in vigore, è bene ricordarlo, sono state pensate quando eravamo ancora solo marginalmente un Paese di immigrazione. E però, nella difesa dello status quo legislativo, nel nome di una contrapposizione estremizzata ius sanguinis-ius soli, si sono innalzate barricate, lanciati anatemi, profetizzati disastri. In realtà, la questione non è più in tali termini, e da tempo.
Il punto di caduta di ogni possibile riforma è il concetto che già l’allora Ministro per l’Integrazione Andrea Riccardi aveva definito di ius culturae: è italiano non solo chì è nato tale, ma anche chi lo diventa. E lo si diventa, tra l’altro, frequentando regolarmente, per almeno 5 anni, uno o più cicli presso istituti del sistema nazionale d’istruzione. La cittadinanza diviene allora un processo, non breve, ma neanche lunghissimo, in cui la nostra lingua, la nostra tradizione culturale, il nostro umanesimo, forgiano un individuo rendendolo indistinguibile, nonostante l’origine, da tanti altri concittadini.
Andando a rileggere “Cuore” vi si trova: «Ieri sera entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri. Allora il maestro gli prese una mano, e disse alla classe: – Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato […] a più di 500 miglia di qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Derossi abbracciò il calabrese, dicendo con la sua voce chiara: – Benvenuto! – e questi baciò lui sulle due guance, con impeto. Tutti batterono le mani».
Roba di un secolo e mezzo fa? Quanti ragazzi un po’ più bruni della media la scuola accoglie anche oggi con dedizione? In quanti, venuti da lontano, non aspirano ad altro che a trovare nelle classi di ogni ordine e grado dei fratelli? E magari in tante occasioni l’italiano che parlano ragazzi e ragazze nati sotto un altro cielo è meno distante dal nostro periodare standard rispetto a quello che avrà avuto il piccolo calabrese di fine Ottocento. Sì, la scuola ha contribuito a farci sentire tutti italiani, ci ha resi italiani dalle Alpi a Lampedusa. Ma quel processo non è finito, continua nell’oggi, generando nuovi figli dell’idioma di Dante, nuovi eredi dell’umanesimo del Manzoni, nuovi cittadini di una Repubblica fondata sul rifiuto di ogni discriminazione.
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