Salvati. Prima che venissero sommersi da una guerra che non avremmo mai immaginato nel cuore dell’Europa. Iryna, Halyna, due giovani donne con i loro 4 figli e un loro cuginetto, sono solo alcuni fra i tanti profughi – soprattutto profughe con bambini – riusciti a fuggire dall’Ucraina, ormai quasi un milione, giunti fra mille difficoltà in Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania e altri paesi tra cui l’Italia.
Loro sono appena arrivati a Roma dopo un lungo viaggio alla ricerca di un approdo sicuro, negli occhi e nella mente ancora le immagini delle distruzioni e i suoni orribili delle bombe che si sono lasciati alle spalle.
Yuri, 8 anni, quando ha sentito la sirena di un’ambulanza che gli passava accanto, nel tranquillo centro della capitale italiana, si è messo subito a piangere. Ricordava troppo gli allarmi che avevano costretto la sua famiglia, nei primi giorni della guerra, a ripararsi nei rifugi di Ternopil, città nella parte occidentale dell’Ucraina.
Ma la storia di questi sette rifugiati, ormai nostri concittadini, è anche emblematica del volto vero dell’Europa, quello solidale e inclusivo che si è messo in moto in questi giorni per accogliere, ospitare, dare cibo, inviare aiuti là dove servono. Una storia che nasce dal pianto di una badante ucraina per la vita in pericolo delle sue due figlie – Iryna e Halyna- e dalla decisione, rapidissima, della sua datrice di lavoro: «Non ti preoccupare: falle venire subito qui, dì loro che posso ospitarle a casa mia`. La stessa dove abita la lavoratrice. Ma quando sono arrivate a Roma, dopo 48 ore di pullman, si è visto che no, non ce la facevano a entrare tutti e sette nella stessa casa. E quindi la signora italiana ha scritto una mail chiedendo aiuto alla Comunità di Sant’Egidio che in poche ore ha risolto il problema non perché proprietaria di strutture ma perché beneficiaria di case che si sono offerte in questi giorni per l’emergenza: una rete che sta facendo riscattare l’Europa dal distacco delle sue istituzioni e ordinamenti – non della società civile – di fronte al dramma di tanti altri profughi.
L’emergenza legata alla guerra ha infatti prodotto un miracolo legislativo: il più grande corridoio umanitario dalla seconda guerra mondiale ad oggi nel nostro continente, realizzato nel giro di poche ore. Perché per gli ucraini è scattata subito la clausola della protezione umanitaria facilitando l’arrivo di questo flusso straordinario di persone.
Che non comprende però solo i cittadini del paese martoriato oggi dalla guerra ma quei profughi, che potremmo definire “collaterali”, il cui diritto ad usufruire della stessa via di fuga non è scontato perché non sempre i singoli Stati sotto pronti nell’aprirgli le porte: sotto tutti gli stranieri, molti dei quali africani, che si trovavano in Ucraina nel momento in cui si sono aperte le ostilità.
Elvis, 29 anni, nigeriano, aveva appena vinto una borsa di studio per studiare a Kharkiv, una delle città martiri di questi giorni. Era arrivato solo nel gennaio scorso per frequentare il corso di ingegneria nella locale università internazionale ed aveva appena cominciato ad imparare la lingua necessaria per i suoi studi, che non è l’ucraino bensì il russo. Appena un mese di permanenza, quando all’improvviso arrivano le bombe. Riesce ad uscire dal paese, non facilmente proprio perché straniero, ma alla fine ce la fa anche lui a salvarsi. Non a Roma ma a Varsavia, la capitale di un paese dove non aveva certo pensato di finire, ma ormai al sicuro, accolto calorosamente come tanti altri in Polonia, dove i rifugiati sono già oltre mezzo milione.
Pochi sanno che in Ucraina i nigeriani sono ben 4 mila, la maggior parte residenti per motivi di studio, così come sono numerosi tanti altri africani. La Guinea Conakry, solo per fare un esempio, ha una lunga tradizione di rapporti universitari con l’Ucraina ma anche con la Russia per via dei suoi trascorsi marxisti. E poi ci sono tanti altri stranieri, latinoamericani e asiatici, soprattutto indiani. Tutti uniti in questi giorni agli ucraini nella stessa, amara, sorte.
L’Europa con le porte aperte sta dall’altra parte della frontiera. Questa volta ha deciso di accogliere. Ma non deve rassegnarsi alla guerra. Sarebbe grave e sarebbe un colpo al cuore di una rinnovata unità che si intravede nel desiderio di pace e di integrazione espresso dai suoi popoli.
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