L’Italia dei poveri non crede più nel futuro

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In Italia cresce il numero dei poveri. La parola d’ordine è ormai chiara: invertire la rotta, il più presto possibile, pur sapendo che si tratta di un lungo e complesso lavoro di resilienza dell’intera società.
Del resto, i livelli sono allarmanti: i poveri, che nel 2005 erano in Italia 1,9 milioni, sono ora, a distanza di appena 18 anni, ben 5 milioni e mezzo, quasi tre volte di più. «Un pugno nello stomaco», ha commentato il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei. Dati certificati dall’Istat e, recentemente, dalla Fondazione Cariplo. Mentre Nomisma ti fa sapere che il 13 per cento delle famiglie italiane ritiene il proprio reddito insufficiente a far fronte alle necessità primarie», come generi alimentari, affitto della casa, bollette.
Per capire come è stato possibile che tutto ciò avvenisse in così poco tempo si possono addurre tanti elementi come la crisi finanziaria del 2008, la pandemia e ora la guerra in Ucraina con tutte le sue conseguenze economiche. Ma forse le radici di questo impoverimento complessivo del Paese vanno cercate più ín generale nel progressivo calo di fiducia nel futuro. Prova ne è il fatto che, a partire dagli anni Ottanta, quel prezioso e indispensabile ascensore sociale che permetteva ad ogni nuova generazione di essere migliore, dal punto di vista economico e sociale, di quella che l’aveva preceduta, ha rallentato la sua corsa fino quasi a bloccarsi.
Tante le cause, accompagnate da un calo demografico che fa dell’Italia una delle nazioni più vecchie del mondo. Fatto sta che questa mancanza di fiducia nel futuro rischia di generare nella nostra società, che aveva conosciuto dal secondo dopoguerra una virtuosa mobilità sociale, progressive chiusure e pericolose divisioni.
Se, come rilevano tutti gli osservatori, la forbice tra ricchi e poveri si allarga ogni giorno di più, il pericolo è quello di andare verso un modello di società più ghettizzata, con il rafforzamento dei compound di chi sta bene e delle periferie in cui si sta sempre peggio.
Un ruolo importante per evitare questa deriva deve svolgerlo la scuola, che ha permesso, dagli anni SesSanta e Settanta – attraverso una riforma che l’ha aperta a tutti – un punto di partenza comune tutte le classi sociali. Ma ci sono interventi urgenti per evitare che chi è sprofondato nell’abisso della povertà ci debba restare per chissà quanti anni ancora. A questo riguardo la Caritas italiana e la Cei hanno messo in guardia chi, in queste settimane, sta mettendo mano alla riforma del reddito di cittadinanza.
Citando l’Istat, che ha certificato – grazie a questo strumento – la protezione dalla caduta in povertà di circa un milione di persone (pari a 450mila nuclei familiari), si è chiesto al governo di fare attenzione alle conseguenze negative della riduzione da 12 a 8 mesi del sostegno economico per i cosiddetti “occupabili”. E sono stati proposti alcuni, precisi, emendamenti alla stessa riforma in corso, che prevedono l’introduzione di due misure tra loro complementari: l’Assegno Sociale per il Lavoro e il Reddito di Protezione, la prima per le “persone in difficoltà economiche senza lavoro”, la seconda per le “famiglie in povertà”, in modo da garantire a chi è in difficoltà una vita dignitosa e percorsi di reinserimento sociale e di riavvicinamento al mondo del lavoro.
Si tratta solo di alcune fra le tante proposte per fronteggiare la crisi, tenendo sempre presente due elementi: che la povertà non è solo un fenomeno statistico ma riguarda famiglie e persone che vanno aiutate in modo differenziato (basta pensare a chi ha in casa familiari malati o comunque in condizioni di fragilità) e che è necessario comunque un sostegno e un accompagnamento.
Una necessità sociale che conosce da tempo l’impegno di tante realtà e associazioni della società civile ma in cui lo Stato deve svolgere, per forza di cose, un ruolo determinante.

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