Un nuovo modello di vita per gli anziani

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«L’istituto era monotono. La sera mangiavamo alle 18.30. La colazione invece era servita alle 9 passate, perché dovevamo aspettare il turno dei pazienti più gravi. Il personale ci trattava come numeri. Anzi spesso non ci chiamavano neppure per nome, ma con il numero del letto». Così Salvatore, 81 anni, racconta come ha vissuto per più di un anno in una casa di riposo a Roma: morta la moglie e senza figli si era convinto che, per l’avanzare dell’età, il ricovero in una struttura fosse l’unica possibilità per continuare a vivere.

Del resto è ciò che viene alla mente a tanti della sua età, quasi sia un destino ineluttabile. Perché si vede che attorno a sé altri anziani lo hanno già fatto, spesso convinti che era “per il loro bene” dalle stesse famiglie e, soprattutto, perché non sembra esistere un’alternativa. Ma stavolta ci si è messo di mezzo il lockdown, che – tra marzo e maggio del 2020 – ha reso drammatiche le condizioni di vita dentro tutti gli istituti ed ha fatto capire a Salvatore la gravità della situazione: «Con il coronavirus prima ha chiuso il giardino, punto di sfogo di tanti pazienti. Poi siamo stati chiusi a chiave nelle camere. La vita si svolgeva in uno spazio molto limitato, con un’assistenza ridotta al minimo. Alcuni restavano a letto anche di giorno perché non veniva nessuno ad alzarli. Sentivamo le inservienti passare nel corridoio, ma facevano finta di non sentire quando le chiamavamo forte per aiutarci. Venivano solo a portarci da mangiare e ci cambiavano il pannolone solo una volta al giorno. Renato, il mio vicino di letto, si era ammalato ed era debolissimo. Non capiva perché non venisse più a trovarlo la figlia; non riusciva più a portare il cucchiaio alla bocca e la minestra rimaneva lì nel piatto. Prima lo aiutavo io a mangiare, ma dopo me lo hanno impedito mettendomi le sbarre al letto».


Salvatore, che per fortuna di energie ne aveva ancora da spendere, ha capito che bisognava reagire. Prima del lockdown aveva conosciuto un volontario della Comunità di Sant’Egidio, che veniva a visitare gli anziani in quell’istituto, e ci aveva fatto amicizia. È a lui che ad un certo punto ha espresso il desiderio di un’alternativa: «Deve esistere un posto, dove le persone della stessa età, magari con un po’ di aiuto, possano vivere insieme, condividendo i costi, ma anche i benefici, della libertà“. Il posto esiste per fortuna, gli è stato risposto: dall’istituto si può uscire. Occorre però organizzare bene le cose. Perché il cohousing, modello che Sant’Egidio ha ormai sperimentato da anni, sviluppando decine e decine di convivenze in diverse città italiane, va costruito con cura.

È vero, si può vivere insieme, tra anziani, anche se non si è parenti, con un po’ di fantasia e un accompagnamento. Per Salvatore è stato l’inizio di una nuova vita nell’appartamento che condivide con un altro anziano. Ognuno ha il suo spazio: una stanza con il bagno e una bella sala da pranzo dove stare insieme e ricevere le visite dei parenti o degli amici. A turno si preparano i pasti con l’aiuto di una badante e dei volontari, mettendo insieme le proprie risorse economiche. Insomma, dal sogno alla realtà.

Quella di Salvatore è una delle tante storie di anziani – è il caso di dire – “salvati” da una condizione di solitudine e abbandono che la pandemia ha fatto emergere in tutta la sua drammaticità e che ci deve spingere a superare il modello dell’istituzionalizzazione puntando sulla casa come “principale luogo di cura”. Lo ha detto, del resto, anche Mario Draghi delineando una prospettiva di riforma della sanità che potenzi l’assistenza domiciliare. Cioè, offrire un futuro diverso alla popolazione e, al tempo stesso, porre le basi per un modello di società a misura di tutte le età e non solo di alcune.

Negli ultimi anni la Comunità ha lavorato per costruire in Italia una rete innovativa di cohousing, che è divenuto un modello e che già accoglie centinaia di persone a Roma, Genova, Napoli, Novara, Padova, Torino, con modalità che variano a seconda delle esigenze personali e che si sostiene con il contributo economico delle persone che abitano nelle case stesse: convivenze di anziani, ma anche di ex senza fissa dimora, che sono accompagnati nel loro percorso di abbandono della strada, o persone con disabilità che si sono trovate in difficoltà, spesso dopo la perdita dei loro genitori. «Ho ritrovato la vita che avevo perso», può dire oggi con convinzione Salvatore, che promette – appena le condizioni lo permetteranno – di tornare in istituto come volontario, per parlare della vita che ha ora la fortuna di vivere, di quel cohousing, diventato ormai una possibilità non solo per i giovani (quando dicono “mamma vado via da casa perché voglio farmi una vita”) ma può essere il futuro anche per tanti anziani. 

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