Figli della scuola. Lo ius scholae è il principale agente di costruzione e formazione dell’identità dei “nuovi italiani”

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Esattamente trent’anni fa, nel febbraio del 1992, il Parlamento italiano emanava la legge n. 91 sulla cittadinanza, aggiornando un sistema di norme e regole sul tema immaginate nel 1912, durante la cosiddetta età giolittiana, per stabilire chi e come potesse diventare cittadino italiano. In altre parole una legge, tuttora in vigore, che riorganizza le modalità con cui si può acquisire la cittadinanza. I destinatari principali cui si rivolge sono legati a un’idea che ormai appartiene al passato: l’Italia come Paese di emigrazione più che di immigrazione. Si intrecciano, infatti, norme che tengono conto dell’universo dei migranti italiani e dei loro discendenti insieme al mondo dell’immigrazione straniera che proprio negli anni ’90 cominciava ad affermarsi.

Introdusse una grande novità per figli e nipoti degli emigranti italiani: la possibilità di chiedere la cittadinanza, a patto di dimostrare di essere discendente in linea diretta di italiani. Tale norma era stata richiesta da decenni, con forza, dagli italiani all’estero e arrivò quando ormai i flussi di massa, soprattutto verso le Americhe, erano terminati da tempo. Mentre la realtà dei nuovi italiani de facto avrebbe continuato a scontrarsi con le difficoltà di divenire italiani de iure, perché quelle regole restavano anacronistiche, nonché frutto di una chiusura dettata dalla paura. La legge del 1992 è, infatti, figlia di un clima di allarme creatosi in Italia negli anni immediatamente precedenti, al tempo in cui l’immigrazione esplode nel dibattito pubblico e inizia a essere politicizzata, ovvero utilizzata come tema forte in campagna elettorale. Tra il 1989 e il 1991 gli immigrati irruppero nelle cronache, dopo anni in cui la presenza straniera in Italia era cresciuta senza fare notizia e senza che gli italiani vivessero il fenomeno con preoccupazione.

Nell’agosto 1989 l’omicidio del giovane sudafricano Jerry Essan Masslo, a Villa Literno in Campania, fece scalpore. Il giovane, ventinovenne, era fuggito da un Paese razzista e fu ucciso in Italia in quello che la stampa descrisse come un attacco razzista, ai danni di braccianti agricoli che erano impegnati nella raccolta dei pomodori. Attorno a quel caso si aprì un dibattito che fece da volano alla stesura della prima legge organica sull’immigrazione, la legge Martelli del 1990.

Due anni dopo, la legge sulla cittadinanza approvata risentiva di questo clima e restava fortemente restrittiva, in particolare sui figli degli immigrati stranieri nati in Italia, che possono richiederla soltanto al compimento del diciottesimo anno di età, hanno un anno di tempo per poter presentare domanda e devono dimostrare di essere stati ininterrottamente residenti in Italia dalla nascita ai 18 anni.

Sono ormai alcuni anni che molte realtà attente al fenomeno migratorio italiano chiedono una revisione di quella legge, in particolare sul punto dell’acquisizione della cittadinanza per i figli di stranieri, perché non si debba attendere il diciottesimo anno d’età per farne richiesta. Ormai l’immigrazione in Italia ha più di mezzo secolo di storia e coloro che sono arrivati in quest’arco di tempo si sono inseriti nel tessuto sociale e produttivo italiano, tanto che il loro apporto vale il 9% del Pil nazionale. Un fenomeno epocale come quello migratorio è stato troppo spesso descritto in termini allarmistici, con un’insistenza continua sugli aspetti problematici e sul nesso, enfatizzato, tra immigrazione e insicurezza sociale.

Nel 2017 il progetto di riforma della legge sulla cittadinanza, approvato alla Camera nell’ottobre 2015, fu archiviato dopo continui slittamenti della discussione in Senato. Il progetto di riforma era basato su uno ius soli temperato, in cui era stato accolto il concetto di ius culturae – suggerito da Andrea Riccardi quando era ministro dell’Integrazione nel governo Monti –, principio che riconosce e valorizza il ruolo centrale della scuola nella formazione dei “nuovi italiani”.

Oggi, finalmente, tale legge è di nuovo all’ordine del giorno del Parlamento, con la proposta passata a maggioranza nella prima commissione della Camera e definita ius scholae. È una legge che sfugge alla tenaglia ius sanguinis-ius soli, per approdare a un’interpretazione originale della questione “cittadinanza” che fa perno sul concetto ius scholae. È italiano non solo chi è nato tale, ma anche chi lo diventa frequentando regolarmente, per almeno cinque anni, un ciclo presso istituti del sistema nazionale d’istruzione.

È impressionante vedere come proprio a scuola bambini, ragazzi, adolescenti figli di stranieri, vivano già da italiani, parlino già da italiani, sognino già da italiani. La riforma della cittadinanza pone la scuola al centro del processo di formazione dell’identità nazionale e, così facendo, non solo rende giustizia al lavoro appassionato di decine di migliaia di lavoratori dell’istruzione, ma continua quella mission che la scuola medesima ha sempre avuto, nel nostro giovane stato: “fare gli italiani”. Alla scuola è riconosciuta quella centralità che dimostra giornalmente nel tessere connessioni e conoscenze nel vivo del contesto sociale.

Sono convinto che sia la scuola – e non il “sangue” – il principale agente di costruzione dell’identità. È la scuola a poterci rendere italiani. La nostra nazione ha camminato verso l’unificazione con il passo lento delle generazioni, in un itinerario che non si è del tutto compiuto nemmeno ora. E lo ha fatto – e lo fa – grazie alla scuola. Siamo tutti figli della scuola. Godiamo tutti di un vasto e diffuso ius scholae.

È, dunque, il tempo di uscire dall’allarme immigrazione, ancora oggi molto utilizzato in chiave elettorale, per riconoscere i fenomeni migratori per quello che realmente sono: processi normali e governabili della nostra epoca. Se nutriamo ancora speranza nel futuro del nostro Paese, non possiamo più trattare così tanti bambini e giovani da stranieri, ma riconoscerli come nostri figli, degni di cittadinanza.

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