SantAlessandro.org, 23 novembre 2014
Intervista a Marco Impagliazzo, di AlessandrA Stoppini
«La visita pastorale di Papa Francesco in Turchia (28-30 novembre 2014), in occasione della festa di Sant’Andrea, fondatore della Chiesa di Costantinopoli, è carica di significati. Innanzitutto per il rapporto che il Santo Padre ha stabilito personalmente con il Patriarca ecumenico Bartolomeo I che ha voluto al suo fianco nell’iniziativa di pace tra israeliani e palestinesi in Vaticano lo scorso giugno. In secondo luogo perché otto anni dopo la visita di Benedetto XVI lo scenario è ulteriormente cambiato nel senso che l’area mediorientale soffre di una gravissima crisi, di un conflitto che sta ridisegnando gli antichi confini di quell’area, stabiliti dopo la I Guerra Mondiale. Il conflitto sta anche ridisegnando la presenza delle popolazioni (in particolare quelle cristiane) che soffrono in maniera molto forte di questa guerra iniziata tra sunniti e sciiti nell’area che ha colpito la Siria prima e che ora sta travolgendo anche l’Iraq. Abbiamo tutti assistito alla nascita del “famoso” Califfato, lo Stato Islamico, che non soltanto terrorizza le popolazioni ma sta creando un nuovo potere in tutta la regione». Marco Impagliazzo, Presidente della Comunità di Sant’Egidio, tra gli organizzatori degli Incontri Internazionali di preghiera per la Pace tra religioni e culture della Comunità di Sant’Egidio, a pochi giorni dalla sesta visita pastorale di Bergoglio in Turchia, chiarisce la “Missione Islam” del Santo Padre che incontrerà un Paese al 98% musulmano.
«I cristiani che vivono in Turchia sono nel cuore della Chiesa, una presenza minoritaria in particolare quella dei cattolici, che però non hanno rinunciato a vivere in quella che è stata una delle prime terre di diffusione del cristianesimo e che ricorda la predicazione apostolica di San Paolo. La presenza dei cristiani in Turchia è una testimonianza ma è anche il segno di una lunga continuità» puntualizza Impagliazzo, nato a Roma nel 1962, Professore ordinario di Storia contemporanea nell’Università per Stranieri di Perugia, che nel 2012 ha ricevuto il Premio Ducci per la Pace.
Che tipo di Paese è la Turchia di Erdogan che troverà il Santo Padre, considerato che le Chiese non hanno personalità giuridica, non possono aprire scuole, costruire né restaurare i luoghi di culto, né devono possedere edifici e terreni?
«La Turchia è un paese che sotto la guida di Erdogan si sta sviluppando molto rapidamente da un punto di vista economico soprattutto nella grande Anatolia, nelle zone contadine e nelle zone interne del paese. È anche un Paese ricco dal punto di vista culturale, formato da un mosaico di popoli, pensiamo all’importante minoranza curda che rappresenta il 30% della popolazione con cui i turchi soprattutto a livello ufficiale hanno dei seri problemi di convivenza, che poi invece viene superata nei fatti. Il problema è che in Turchia c’è ancora un sistema da una parte “laico”, che è eredità del passaggio della fine del Califfato subito dopo la fine della I Guerra Mondiale con il fondatore della Turchia moderna, Kemal Ataturk, e dall’altra con il governo di Erdogan una recrudescenza di una visione islamica piuttosto pervasiva nella società. Quindi non è facile per i cristiani vivere in Turchia ma noi dobbiamo far sì che questa piccola minoranza abbia sempre più una voce, uno spazio pubblico e la possibilità di esprimersi nei fatti. Oggi nel mondo globalizzato tutti hanno il diritto di esprimersi, di parlare, riunirsi, praticare e vivere quella libertà religiosa che è diventato uno dei fondamenti della democrazia».
“L’Italia è sempre stato uno dei più forti sostenitori della Turchia nella Ue. Sono pienamente convinto che il semestre di Presidenza italiana della Ue accelererà il processo di adesione all’Unione”, ha affermato il neo ministro turco per gli Affari Europei, Mevlut Cavusoglu. Pensando anche al ponte sul Bosforo a Istanbul che collega l’Asia all’Europa, simbolo di una città cosmopolita che appartiene a due continenti, ci può dare un’opinione al riguardo?
«Sono uno dei sostenitori dell’allargamento dei confini dell’Ue, perché i valori europei sono valori universali, rappresentati dal diritto, dai temi ecologici di cui tanto si parla in questi giorni di cui l’Europa è il primo portatore. Penso ai temi della solidarietà, del welfare e della società del diritto. Credo che più i popoli vengono toccati dallo spirito europeo, meglio i popoli potranno vivere e potranno godere dei diritti della democrazia, del welfare e di tutto ciò che ne concerne. Faccio un esempio: l’Europa è il primo continente al mondo senza la pena di morte, ciò significa che l’Europa diventa un modello per i diritti a livello mondiale. Quindi l’allargamento della Ue può portare del bene ai popoli della stessa Europa».
Bergoglio nel suo sesto viaggio apostolico in un Paese a maggioranza musulmana desidera, secondo Lei, anche dare un segnale forte di solidarietà nei confronti dei cristiani perseguitati e uccisi dagli islamici integralisti in Iraq, Siria e altre zone?
«Andando in Turchia il Papa non potrà non pensare a tutti i cristiani perseguitati e uccisi in queste zone. Il suo viaggio in quelle zone è un segno della sua particolare vicinanza. La volontà di Francesco di andare nonostante la difficoltà con la quale è stato preparato questo viaggio per il fatto che si sta combattendo una guerra ai confini turchi e anche in parte dentro i suoi confini nella zona est, è la testimonianza che Bergoglio vuole stare accanto ai cristiani che soffrono».
Il Pontefice avrà un incontro privato con Bartolomeo I, il patriarca ortodosso che è stato ospite lo scorso giugno in Vaticano per la preghiera per la pace in Terra Santa con il presidente palestinese Abu Mazen e l’omologo israeliano Shimon Peres. Che cosa resta di quello storico incontro?
«Resta un segno di speranza e per usare le parole di Papa Francesco “una porta aperta”. Il Pontefice ha voluto aprire una porta, non ha voluto indicare una soluzione. La “porta” è stata il dialogo che è sempre la strada maestra per la risoluzione di ogni conflitto, tanto più se riguarda quello tra Israele e Palestina».
L’Armenia ha invitato il Pontefice, da sempre vicino alla sua comunità. Il prossimo aprile ricorrono i 100 anni dal massacro che Ankara non ha mai voluto riconoscere e che Papa Francesco ha definito come “il primo genocidio del XX Secolo”. È questo un altro aspetto della visita apostolica in Turchia?
«Non credo che in Turchia Bergoglio parlerà di questo. Spero vivamente che il Santo Padre possa compiere un gesto nei confronti della comunità cattolica armena particolarmente colpita proprio in questo periodo dalla malattia del Patriarca Medrov, ricoverato presso l’Ospedale armeno di Istanbul. Auspico che Bergoglio possa incontrare il patriarca, anche se quest’ultimo, afflitto da alcuni anni da una malattia progressiva, non è più cosciente, e pregare con lui. Sarebbe questo un forte segno di vicinanza alla comunità armena. Diverso è il discorso di denuncia del genocidio che il Papa non farà anche perché non si tratta di denunciare ma si tratta soltanto di ricordare».
La missione Islam ad Ankara e Istanbul punta al rinnovamento del dialogo ecumenico, elemento fondamentale del pontificato di Papa Francesco. “Cercare ciò che unisce, lasciando da parte ciò che divide” era la convinzione profonda di Giovanni XXIII, delegato apostolico in Turchia negli anni Trenta che Andrea Riccardi in un suo libro ha chiamato “l’uomo dell’incontro”. Roncalli fu un anticipatore in tal senso?
«Sì, Roncalli è stato un grande anticipatore, perché ha saputo aprire una strada nell’incontro ecumenico quando questo concetto ancora non esisteva. L’incontro con un cristianesimo di minoranza, qual è il cristianesimo in Turchia fa sì che tante divisioni che sono frutto anche di una lunga storia, sembrino realmente quello che sono, “divisioni minori” rispetto alla necessità che c’è tra i cristiani di essere uniti soprattutto in una condizione di minoranza. Ho recentemente visitato nella parte orientale della Turchia delle zone di antichissima cristianità: armena, siriaca. Qui si realizza un ecumenismo nei fatti, perché c’è un solo prete di una sola confessione religiosa che celebra la liturgia per tutti i cristiani. Lì non ci sono differenze, perché si è soli, si è in pochi e bisogna essere uniti di fronte alla grande marea musulmana che li circonda. Non è un’unità contro qualcuno, ma è un’unità generata da una comunità profonda».
Quali sono state le parole chiave che hanno sintetizzato i lavori dell’Incontro internazionale ecumenico per la pace organizzato lo scorso settembre in Belgio ad Anversa dalla Comunità di Sant’Egidio, nel quale erano presenti circa 350 rappresentanti delle principali fedi?
«Le parole chiave sono state la pace e il futuro. L’altro discorso chiave è stato quello della grande e profonda collaborazione tra i rappresentanti delle principali fedi. Esiste un futuro dove si può vivere insieme nella pace e nella giustizia».
“La Chiesa è chiamata a uscire da se stessa e dirigersi verso le periferie, non solo quelle geografiche ma anche quelle esistenziali”. Quindi “uscire da se stessi” per andare “verso gli altri”, verso “le periferie dell’esistenza”, perché “c’è tanto bisogno di portare la presenza viva di Gesù Misericordioso”. È per questo motivo che Papa Francesco ha inaugurato i suoi viaggi fuori dalle Mura Leonine iniziando da Lampedusa?
«È stato un gesto altamente significativo, perché nel mare intorno a Lampedusa si verifica proprio che cosa significa andare verso le periferie dell’esistenza, cioè della vita di tante persone costrette a lasciare il loro paese per tanti motivi. Queste persone cercano un futuro, una speranza nel nostro Continente. È giusto che se cercano questa strada possano emigrare in tutta sicurezza. Ciò non avviene per tanti motivi, anche per il nostro egoismo europeo, per la chiusura delle nostre frontiere. Questo crea dei problemi esistenziali umani impressionanti, oltre a creare tanti lutti. Dunque la visita di Francesco ha avuto un significato straordinario, eccezionale, pensando anche che è stata la prima visita apostolica di Bergoglio fuori dal Vaticano».
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