Il recente film di Leonardo Di Costanzo, “Ariaferma”, con Toni Servillo e Silvio Orlando, girato nell’ex carcere San Sebastiano di Sassari, fa riflettere sul sistema carcerario in Italia. La pandemia, che oggi stiamo ancora attraversando, al suo inizio provocò indirettamente una rivolta nei penitenziari, alimentata in gran parte dalle confuse notizie di quei giorni. «Non hanno niente di degno da fare, i detenuti – scrisse allora Adriano Sofri – dunque hanno molto tempo per pensare».
«Si chiedono se si ammaleranno e moriranno. Se qualcuno darà loro delle mascherine. E che distanza ‘sociale’ si potrà tenere nella loro discarica, dove le distanze si misurano in centimetri. Saremo soli, si dicono. Senza famiglia, senza operatori, senza volontari – senza». Proteste e tumulti si verificarono in una cinquantina di strutture tra il 7 e l’11 marzo 2020, mentre in Italia scattava il primo lockdown. Lo abbiamo già dimenticato, ma in quei giorni morirono quattordici detenuti.
«Le galere – ha scritto qualcuno – sono, in una pandemia, il luogo più somigliante alle case di riposo, le RSA». Lasciamo da parte per oggi quel che si potrebbe dire ancora sulle RSA, nonostante i meritori sforzi del ministero della Salute. E guardiamo all’universo penitenziario.
Le carceri, spesso sovraffollate, in ambienti vetusti – pensiamo al dramma dei suicidi dei detenuti ma anche degli agenti della polizia penitenziaria – sono a tutt’oggi un mondo provato, in cui reclusi, familiari, operatori, personale operante sentono il peso degli effetti, non solo sanitari ma soprattutto ambientali, causati dal virus. Occorre quindi, prioritariamente, lasciare la possibilità dei colloqui con le famiglie, di un rapporto con i volontari e non bloccare le attività appena riprese dentro il carcere. E garantire questi diritti osservando in modo stretto le misure di prevenzione anti Covid.
Si respirano una stanchezza e un abbattimento generali. «Qui (in carcere) non c’è niente da ridere» – dice il capo dei detenuti Lagioia, interpretato da Silvio Orlando in Ariaferma, a un giovane recluso. La protesta è spesso muta, la rabbia è vinta da un sentimento di rassegnazione. Ancora il film: «Nessuno ti ha detto che in carcere non si piange? Asciugati la faccia».
Eppure, da quel mondo si levano voci che chiedono di essere ascoltate. Non pretendono l’impossibile o l’ingiusto, ma sperano che sia vero, anche per chi è oltre le mura, quel che si diceva mesi fa: «Ne usciremo migliori».
È necessario superare tutto ciò che di sbagliato era già all’opera dietro le sbarre prima della pandemia e che il Covid-19 ha esasperato. Occorre meno distanza e più socialità. Che si traduce in meno disperazione e più speranza, meno solitudine e più accompagnamento. Vuol dire anche lavoro – dentro e fuori dal carcere -, scuola, percorsi formativi e professionali, tant’è che per molti l’uscita significa incertezza, non sapere dove andare, reti sociali e familiari infragilite. Per questo grande è il valore del volontariato, il suo essere “ponte” tra un passato fatto di sbagli, a volte anche gravi, a volte più lievi, e un futuro che può essere come quello di tutti.
È quel che emergeva su “Avvenire”, qualche giorno fa, quando si citava la lettera che un detenuto, Claudio, indirizzava a una volontaria: «La tua vicinanza mi fa sentire parte di un mondo talmente sopito da non ricordare più l’umanità che giaceva in fondo al mio essere e che tu, con la tua positività e la tua umanità, hai risvegliato a tal punto che non voglio più che si addormenti». Tanti detenuti conservano e mostrano ai volontari lettere, biglietti di auguri, mail, oggetti, come segni preziosi di vicinanza, ma anche segnali che manifestano la preoccupazione per un futuro sospeso.
Claudio ci ricorda che, in realtà, è desiderio di tutti uscire da una condizione di chiusura e di torpore, per scorgere insieme un orizzonte differente in cui nessuna istituzione sia “totale” in senso deteriore, ma piuttosto aperta e positiva, come del resto la Costituzione e il senso d’umanità ci impongono.
Commenti chiusi
I commenti per questo post sono chiusi.