Francesco, Chaplin e un sogno vero. Per uscirne tutti insieme

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Nel 1940, ottant’anni fa, in un autunno di guerra in Europa, quando si intuiva già il dramma in cui il mondo stava precipitando, anche se non era ancora chiara la profondità dell’abisso (60 milioni di morti, la Shoah, l’atomica su Hiroshima e Nagasaki), usciva nelle sale statunitensi il film di Charlie Chaplin, “Il grande dittatore”.
In quel film – è noto – Chaplin interpreta due parti, quella di Adenoid Hynkel, versione caricaturale di Hitler, e quella del somigliantissimo barbiere ebreo, al quale, scambiato per il dittatore, nella sequenza finale viene chiesto di arringare la folla. Ne viene fuori un bellissimo “discorso all’umanità”.

Il cambiamento di registro – dal comico all’ispirato – lasciò perplessi i critici, ma oggi quelle parole testimoniano la visione di Chaplin sull’uomo e sul domani, il suo personale «I have a dream» e, al tempo stesso, interpretano i sentimenti di miliardi di uomini e di donne.
«Vorrei aiutare tutti, se possibile: ebrei, ariani, neri e bianchi. Tutti noi esseri umani vogliamo aiutarci l’un l`altro, siamo fatti così. Vogliamo vivere fianco a fianco con la felicità del prossimo, non con la sua miseria», dice il barbiere. “A coloro che mi ascoltano io dico: non disperate! Non siete macchine! Non bestie! Siete uomini! Avete l’amore per l’umanità nei vostri cuori! Voi, il popolo, avete la forza di costruire la felicità! Di far sì che la vita sia libera e bella, sia una magnifica avventura! Uniamoci tutti! Combattiamo tutti per un mondo nuovo, che dia a ognuno un lavoro, ai giovani un futuro, agli anziani la sicurezza».

Anche noi, in questo autunno di tristezza e scontento che si sta già facendo inverno, mentre viviamo un tempo tanto difficile, siamo chiamati a guardare oltre, a non disperare, a credere ancora più fortemente che «un mondo nuovo» sia possibile, a costruire orizzonti di unità e di solidarietà. È il tema della Fratelli tutti, l’enciclica per la stagione che viene, per un mondo che è a un bivio. In pieno disordine globale, nel mezzo di una «terza guerra mondiale a pezzi», esposti a una pandemia come non se ne vedevano da un secolo, alle prese con le sue ricadute economiche, le persone sono disorientate, preoccupate, impaurite. Che fare? Papa Francesco ha chiaro che si tratta di scegliere un futuro di «fraternità universale», in cui l’altro non sia il mio nemico, ma mio fratello.
Insieme all’epidemia la solitudine è un ulteriore contagio che si diffonde, si disgregano le reti che tengono insieme la polis, si accentuano le divisioni tra le nazioni, le culture, i continenti. Una comunicazione senza mediazioni, soggetta all’istinto e aliena dalla riflessione, induce a chiudersi, illude di poter fare da soli. Il magistero pontificio vive della convinzione opposta. E Francesco, in questa nostra epoca, è l’uomo della «fraternità universale».
La Chiesa non accetta di rattrappirsi, di essere una comunità senza sogni. Continua a parlare perché il mondo sia diverso, perché esso abbia un futuro. È quel che il Papa ha detto ai giovani domenica scorsa: «Il Signore non vuole che restringiamo gli orizzonti, non ci vuole parcheggiati ai lati della vita, ma in corsa verso traguardi alti, con gioia e con audacia».
La notizia è che il presente può cambiare. Che il futuro possiamo costruirlo migliore, anche se oggi siamo in guerra contro il virus e contro le sue lunghe conseguenze economiche e sociali. La notizia è che un tempo nuovo può essere cercato e costruito, come ci ricorda anche l’Avvento che sta per iniziare, nell’opera di uomini e donne che rammentano di essere umani, e di essere tutti fratelli, come ci ripete la nascita di Gesù.
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