Francesco punta il faro sull’Africa

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Non verrà ricordato solo per l’entusiasmo delle folle che lo hanno accolto, per i canti e la gioia che hanno espresso. Il viaggio di Papa Francesco in Africa è stato qualcosa di più. Perché ha fatto bene non solo a questo continente, così vicino all’Europa, che racchiude per molte ragioni – fosse solo per la sua crescita demografica – tanta parte del futuro del nostro mondo, ma a noi tutti facendolo emergere dalle nebbie di una rappresentazione mediatica spesso oscura e quasi sempre negativa.

Forse è proprio questo il primo risultato, di carattere generale, della visita che si è appena conclusa: avere acceso i riflettori sulla Repubblica Democratica del Congo e sul Sud Sudan. Si tratta di due paesi di cui si parla troppo poco, ma che sono di valore primario per le ricchezze del loro sottosuolo. E decisivi per la stabilità di un’area geografica dove, qualche anno fa, si combattè quella che venne ribattezzata la “prima guerra mondiale d’Africa” e dove ancora oggi permangono preoccupanti conflitti.

Papa Francesco ha parlato dalla periferia per rivolgersi al centro, come fa spesso e come fece durante il suo primoviaggio nel continente, quando — nel 2015— scelse di aprire l’Anno Santo a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana. Ha detto con forza a Kinshasa: “Giù le mani dall’Africa! Basta soffocare l’Africa: non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare”. Cioè: ricchezze che non vanno quasi mai a beneficio delle popolazioni ma solo del Nord del mondo insieme a una ristretta cerchia di africani che ne possono usufruire perché tra i pochi che contano.

Ma non è stata solo una denuncia, bensì un messaggio di speranza rivolto soprattutto ai giovani, a quelle enormi folle che rappresentano la maggioranza degli abitanti, in paesi dove la speranza di vita è ancora molto bassa rispetto all’Occidente. Giovani che ha messo in guardia dal seguire la violenza e dal rassegnarsi al terribile flagello della corruzione che condiziona in negativo ogni tentativo di crescita economica, civile e culturale. “L’Africa è un diamante”, ha aggiunto. E le persone, le risorse umane, “sono il suo bene più prezioso”.
Ma è in Sud Sudan che il risultato è stato immediato, quasi tangibile, registrando signtificativi passi avanti verso la pace. La memoria del gesto compiuto nell’aprile 2019, quando si inginocchiò in Vaticano davanti ai leader di questo paese, in guerra tra loro, per baciarne i piedi implorando la fine delle ostilità, ha fatto da sfondo alla visita. Tutti avevano coscienza e forse — si spera — vergogna per il tradimento di quel segno, dato che successivamente la violenza aveva continuato a martoriare quello che è il più giovane paese africano, uno Stato nato nel 2011 dalla lunga lotta per l’indipendenza dal Sudan e subito dopo sprofondato nelle sue divisioni militari ed etniche.

Proprio grazie alla scelta di Francesco di visitare la capitale, Juba, si è aperto un nuovo spiraglio alla pace con il rilancio del negoziato che la Comunità di Sant’Egidio aveva avviato a Roma nel 2020 coinvolgendo tutte le parti in conflitto, comprese quelle che non avevano firmato l’accordo di pace del 2018: il presidente Salva Kiir, che negli ultimi mesi si era sfilato dalle trattative, ha infatti dichiarato, davanti a Francesco, che tornerà a sedersi a quel tavolo: “La sua presenza tra noi è una pietra miliare storica”. Affermazione che fa riflettere sull’importanza di non seguire solo gli avvenimenti da lontano ma di essere presenti e solennemente.

La disponibilità a riprendere i colloqui di Roma con i gruppi di opposizione non firmatari apre nuovamente alla speranza un paese che ha troppo sofferto. Speranza certificata da un ulteriore gesto, sempre scaturito dalla visita di Francesco: la concessione della grazia a 36 condannati a morte. Una scelta che molti osservatori hanno definito “clamorosa” dato l’orientamento decisamente giustizialista dei locali leader politici e istituzionali.
Ancora una volta Papa Francesco ci sorprende e al tempo stesso ci fa capire che abbiamo un dovere, quello di non rassegnarci di fronte a situazioni difficili e precarie. Soprattutto, mai di fronte alla guerra e alla violenza.

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