I responsabili dello scatenarsi di questa ennesima guerra nel Vicino Oriente hanno scomesso sullo scontro all’ultimo sangue, sulla morte dei “propri” e quella dei “loro”: Così facendo si vuole portare all’estremo la non accettazione dell'”altro”, che tante tragedie ha provocato nella storia. In un baratro di atrocità si nega ogni forma di riconoscimento a un popolo diverso dal proprio, respingendo così in radice la condizione della convivenza: impossibile vivere insieme, impraticabile che due Stati vivano l’uno accanto all’altro così vicini.
Il rifiuto della convivenza è drammatico in Terra Santa, tormentata dalla guerra in questi giorni, ma è diffuso un po` ovunque nel mondo. E se in passato, particolarmente dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, abbiamo sperimentato ondate di anti-arabismo e di islamofobia, oggi ci confrontiamo nuovamente con il risorgere dell’antisemitismo, un fuoco che purtroppo cova sempre sotto la cenere del pregiudizio. Diviene una delle conseguenze dirette della guerra di Gaza, ulteriore esempio di come la contrapposizione generi sempre contrapposizione e la violenza altra violenza.
Un contagio antisemita che scatta con l’ingranaggio dell’attuale conflitto, ma in realtà assume tratti ben noti, si ripete e si diffonde da generazioni. Quanto accaduto in Daghestan, quanto accade in queste ore negli Stati Uniti, in Francia, a Parigi o a Roma come in altre città europee, sono altrettanti campanelli d’allarme da non sottovalutare. Non va dimenticato che il grave attentato alla sinagoga di Roma dell’ottobre 1982 in cui un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché, venne ucciso e altri 40 ebrei romani feriti, era di qualche settimana successivo all’invasione israeliana del Libano e alle stragi di Sabra e Chatila ad opera delle falangi libanesi alleate di Israele.
Se ogni violenza è dimentica della storia, la violenza antisemita oblitera anche la realtà dei fatti identificando ogni ebreo con Israele o, meglio, con la politica del governo di Israele. «L’antisemitismo non percepisce la complessità di Israele e la varietà dell’ebraismo internazionale», ha detto ieri ad “Avvenire” Matteo Corradini. «Per l’antisemita c’è solo l’ebreo sempre uguale nei secoli, sempre nefasto», ha aggiunto lo studioso. È così che un bambino di due anni diventa un nemico e si accetta il cortocircuito dell’ideologia nazista, mostruoso avvitamento del pensiero che, fondato nel razzismo, si nutre di identificazioni, categorizzazioni e generalizzazioni.
Ogni popolo, ogni cultura ha il compito di purificarsi da queste dinamiche. Per questo è opportuno oggi stringersi alle comunità ebraiche sparse per il mondo, comprensibilmente preoccupate per un clima di ostilità crescente attorno a loro. E riprendendo a ricordare e parlare, a distinguere e spiegare, a esaltare il valore della memoria. Sentiamo il bisogno di farlo. Sulle colonne dei giornali, nelle scuole, nelle università, in ogni ambito della nostra società.
Con la Shoah è andato distrutto, in Germania, Polonia e in tutta Europa, il coabitante di sempre dell’europeo e del cristiano. Auschwitz, dove fu ucciso più di un milione di ebrei, resta il monumento monito di dove può portare la disumanizzazione dell’altro. Tuttavia, dall’orrore di quel campo è nata una nuova coscienza europea, che mette da parte le logiche razziste, nazionaliste, identitarie, generalizzanti.
I pellegrinaggi della memoria ad Auschwitz, o negli altri campi di sterminio, sono un fatto decisivo nell’educazione e nella coscienza di migliaia di giovani europei. Purtroppo, come ammoniva Primo Levi in I sommersi e i salvati, tutto ciò «è avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire». La persecuzione, o qualcosa che le assomigli – continuava Levi – «attende solo il nuovo istrione che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo».
Occorrerà fare attenzione perché le legittime critiche all’operato di uno Stato, di un governo, di un gruppo, e lo sdegno per il massacro dei civili innocenti, non diventino l’occasione e il pretesto per una rinnovata violenza verso una minoranza. Lo dobbiamo alle comunità ebraiche che non vanno mai lasciate sole, ma anche a noi stessi, per riuscire a evitare l’infezione razzista, a preservare il nostro pluralismo e a non cadere nella banalità del male che vuole la distruzione della convivenza con l’Altro.
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