L’ultimo colpo di Stato, proprio ieri nel piccolo Gabon, dopo quello in Niger del 26 luglio scorso, ha accresciuto la stupore e la preoccupazione dell’Europa. Una spirale di golpe sta travolgendo la regione del Sahel senza che nessuno sappia come arrestarla. Guinea Conakry, Mali, Burkina Faso, Niger e ora Gabon (si può contare anche l’autogolpe del Ciad) stanno delineando un nuovo insieme di Paesi africani che si allontanano dall’Europa acquisendo un atteggiamento polemico, in particolare verso la Francia.
Si parla diffusamente di seconda decolonizzazione, considerando quella del secolo scorso contaminata da una presenza, prima coloniale poi neocoloniale, troppo intrusiva. Si vedono sempre più spesso sventolare bandiere russe per le strade in mano ai giovani manifestanti che chiedono una “vera” indipendenza. Ciò non significa che gli africani si fidino ciecamente di eventuali nuovi amici: cinesi, russi, turchi o peggio Wagner. Si tratta di un messaggio: vengono al pettine tanti errori commessi in questi decenni durante i quali non si è dato avvio a una vera economia africana di trasformazione, ma soltanto utilizzato il metodo di sfruttamento “estrattivo” di materie prime che non ha lasciato granché al continente.
Inoltre, l’Occidente è accusato di avere sostenuto governi corrotti e non democratici, malgrado i valori che sostiene. La frattura sentimentale tra Africa francofona e Francia è un problema per tutta l’Europa. Troppi piani Marshall per il continente annunciati e mai realizzati; troppe umiliazioni davanti alle ambasciate europee per ottenere un visto; troppa insensibilità per il destino dei migranti che muoiono in mare o nel deserto; troppa vuota retorica sulle relazioni eurafricane: ora tutto si paga con un rigetto che inizia dai Paesi più poveri come quelli saheliani, ma minaccia anche quelli costieri più ricchi.
Il jihadismo, che da anni manipola le ingiustizie e le diversità etnoreligiose delle stesse fragili aree, ne approfitta inserendosi all’interno della parte più misera della popolazione, rischiando di mettere in crisi la tenuta stessa degli Stati. I movimenti islamisti attuali sono eredi delle endemiche rivolte tuareg del Sahel, soprattutto in Mali, ma con maggiore capacità di penetrazione e resilienza militare.
Come fare per arrestare tale deriva? È la domanda che si pongono le cancellerie europee senza per ora trovare risposte adeguate. La cooperazione allo sviluppo è senz’altro essenziale, ma deve essere accompagnata da una relazione politica nuova. L’Unione Europea e gli Stati membri sono ancora i maggiori donatori del continente, ma spesso vengono percepiti come portatori di agende nascoste. Serve un’innovazione politica che imposti una relazione non più paternalistica, come spesso è avvenuto soprattutto con le ex potenze coloniali. La cosa più urgente è che l’Europa si liberi dall’ossessione migratoria che ha modellato, almeno negli ultimi quindici anni, la sua politica con l’Africa.
Gli europei hanno poco ascoltato le priorità africane, ma imposto la loro: bloccare i flussi. Ciò riguarda anche l’Italia, che da anni tenta accordi per arginare le migrazioni, prima con le milizie libiche e ora con la Tunisia. Non ha funzionato all`epoca, non sta funzionando adesso: da Sfax continuano a partire barchini sempre più fragili che rischiano di affondare anche in un tratto di mare così breve. Ciò che l’Europa non riconosce – o fa finta di non capire – è che i push factor delle migrazioni sono potenti e stabili e il fenomeno è strutturale: i giovani africani e arabi non hanno più fiducia nel futuro dei propri Paesi e cercano salvezza altrove. Fuggono proprio da quei regimi autoritari con cui gli europei pensano di accordarsi.
I ripetuti golpe militari sono un segnale di estrema debolezza: gli Stati non tengono e crollano sotto la pressione di jihadismo, corruzione, lotte etniche e diseguaglianze di ogni tipo.
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