Ernesto Galli della Loggia rimarcava giorni fa sul Corriere della Sera il fatto che «immigrati di seconda generazione, dunque nati in Italia, che verosimilmente [avevano] seguito un ciclo scolastico o più d’uno nelle scuole italiane», si erano resi protagonisti di manifestazioni anti-israeliane e di slogan antiebraici.
Evidentemente, aggiungeva, l’istruzione e le lezioni di educazione civica impartite loro nelle nostre aule «non [erano] state capaci di metterli al riparo» da «uno schietto antisemitismo». Ne discende secondo l’editorialista che lo ius culturae è insufficiente a creare buoni cittadini, concludendo con un’oscura premonizione: «tra l’illuminismo e l’identità, rassegniamoci, quasi sempre vince l’identità».
L’essenza delle persone
Per Galli esistono dunque dei “marker antropologici” fatali, secondo i quali nulla della natura umana può cambiare: esiste un’essenza delle persone che diviene il loro destino.
Si tratta di un pensiero sempre più diffuso: una dottrina che essenzializza le persone fissandone le caratteristiche con presunti elementi oggettivi (natura, etnia, religione e così via), immutabili e irrecuperabili. In questo caso sarebbe come dire: se la tua età è giovane, la tua etnia è nera o araba e la tua religione islamica, diverrai di sicuro un problema per la società occidentale nella quale ti inserisci o nasci.
Sappiamo quale tragedia può venir fuori dal fissare giovani e adolescenti in una loro essenza (presunta) originaria e immutabile: ogni qualvolta si essenzializza una persona o un gruppo umano, si perde di vista la sua umanità, la sua contemporaneità e la sua individualità, entrando in un vortice pericoloso.
Si tratta di una forma di disumanizzazione condannata dal pensiero liberale. Niente può marcare a fuoco il destino di una persona, se non le sue scelte giorno dopo giorno e la cultura in cui vive e di cui si nutre. Tanto meno quando si parla di giovani contemporanei, pur se le loro reazioni non ci piacciono. Galli dovrebbe infatti rendersi conto che se alcuni giovani si sono resi protagonisti di manifestazioni antiebraiche – e ciò rimane certamente da condannare – forse la radice va ricercata proprio nella cultura oggi ancora esistente in Italia tra gli stessi italiani di origine. Com’è noto l’antisemitismo non è mai del tutto morto tra di noi, “italiens de souche”, e sarebbe bene guardare a come spesso ritorna in auge nei momenti di crisi, mediante una cultura della separazione e del capro espiatorio.
Infatti additare quei giovani di seconda generazione come generatori originari di antisemitismo significa trasformarli in capro espiatorio al posto della crescente mentalità razzista del nostro paese di questi ultimi anni, sorella della mentalità violenta che è stata fin troppo sdoganata, a cominciare da quella verbale dei talk show.
Troppa tolleranza
Purtroppo da tempo nelle estreme europee, sia di destra che di sinistra, risorge un antisemitismo che viene troppo tollerato. Lo abbiamo visto anche in paesi dalla tradizione civile più matura della nostra, come il Regno Unito o i paesi scandinavi. Non c’è stato bisogno dell’apporto delle seconde generazioni per vedere risorgere tale fenomeno dal sottosuolo sub-culturale europeo (quello sì davvero anti-illuminista!). Lo ius culturae non c’entra: c’entra invece quello che stiamo diventando tutti noi, trascinandoci appresso anche i nuovi europei e i nuovi italiani. La battaglia di civiltà e di umanesimo non va fatta tagliando la società a pezzi o dichiarando irredimibili alcune sue parti: va operata nell’anima stessa, nel cuore di ognuno di noi.
Ecco perché non si è mai condannati a restare “lì dove si è”. La cultura è una forza di cambiamento in positivo mentre la scuola – e non il “sangue” – è il principale agente di costruzione dell’identità. È la scuola che ci ha reso italiani: la scommessa di “fare gli italiani” dopo aver fatto l’Italia. Scommessa antica quanto la nostra storia unitaria. Eravamo tutti italiani 150 anni fa? Non davvero. La nostra nazione ha camminato verso l’unificazione con il passo lento delle generazioni, in un itinerario che non è ancora del tutto compiuto. Lo ha fatto – e lo fa – principalmente grazie all’educazione. È stata la scuola – assieme alla televisione – a forgiare quell’identità che Galli della Loggia ora rivendica come frutto del nostro «ambiente familiare e religioso». Siamo tutti figli della scuola pubblica per la quale godiamo di un vasto e diffuso ius culturae.
Don Milani amava dire che la scuola «siede tra il passato e il futuro». A scuola si è liberi: liberi dalle paure di un tempo spaesato, dalla pressione mediatica, dalle semplificazioni e dai luoghi comuni, e si scorge il futuro. La scuola trasmette il nostro passato, indaga il nostro presente, ma ci rivela il nostro futuro.
È impressionante vedere come a scuola – e dunque nel futuro – bambini, ragazzi, adolescenti, giovani figli di stranieri, vivano già da italiani, parlino già da italiani, sognino già da italiani.
Non sarà una manifestazione a negarlo.
La cittadinanza è un processo, non breve ma nemmeno troppo lungo, in cui la nostra lingua, la nostra tradizione culturale, il nostro umanesimo, forgiano un individuo rendendolo indistinguibile, se non per il cognome e forse per i tratti somatici, da tanti altri concittadini.
Ernest Renan diceva che «la nazione è il plebiscito di ogni giorno»: è necessario uno sguardo costruttivo su fenomeni storici di così vasta portata come l’immigrazione. La fortuna è che il nostro sistema formativo è già attrezzato al tempo che viene (e può esserlo ancora di più) per far convergere tanti “loro” in un “noi” più largo, più aperto, più gravido di vita e di futuro. Forse anche il nostro sistema dei media, e il nostro dibattito culturale, dovrebbero attrezzarsi di conseguenza.
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